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martedì 5 giugno 2012

La profezia di Maya Sansa

Allora no un giorno io stavo camminando facendomi allegramente i cazzi miei. Io non è che sono un tipo di quelli che non bada a quello che pensa la gente, che se ne frega di tutto si. Capito? mi facevo allegramente i cazzi miei una buona volta, dico, una buona volta nella vita che riesco a farmi i cazzi miei per strada in mezzo alla gente no, ecco che arriva Maya Sansa.
Maya Sansa io mi son sempre chiesto come mai fosse venuta in Italia a fare l'attrice, poi ho scoperto che è italiana. C'ha un sorriso da pazza secondo me, alcuni direbbero che è bello, io dico che una volta in qualche meeting di scuole medie che penso avrete presente quei meeting di sport e salute e stiamo tutti insieme e volemose bene che ti fanno fare alle scuole medie con altre scuole medie. Ecco una volta del genere, ma forse era agli scout eh, adesso non ricordo bene, beh ecco una volta del genere ho visto una matta, una bambina matta, che se ne stava tutta storta, era disabile poveretta, io dico matta, ma non saprei, stava male insomma. Io ho sempre provato grande pena per i bambini molto disabili e mi dicevo quanta sofferenza, quanto patimento, che senso ha la vita e avevo sei anni o anche di più, ma sempre le domande erano le stesse. Beh ecco questa qui aveva lo stesso sorriso di Maya Sansa, ma non è che sorrideva: era una smorfia di dolore. Maya Sansa invece sorride perché le dicono "cis" e scattano le foto al lido di venezia alla presentazione di film tipo buongiorno notte di marco bellocchio che è un regista strabravo, anche se una volta abbiamo messo su l'enrico iv e ci siamo addormentati tutti dopo cinque minuti. oh, eravamo sbronzi.
comunque dicevo che mi facevo i cazzi miei e niente oh, spunta maya sansa. maya sansa che dice che un giorno arriveranno nuovi dati sulle radio e li leggerai sul ilpost.it e dirai cazzo non pensavo proprio.
Torno a casa e racconto la cosa a mia mamma che fa boh, succederà tipo il ventuno dicembre duemiladodici, ma così, senza un motivo preciso. Poi l'altro ieri babos dice che forse succede il cinque giugno ed è davvero successo il cinque giugno: ho scoperto che secondo questi dati, invero non troppo attendibili, davvero un sacco di gente ascolta la radio. Ma radio tre non se la fila quasi nessuno dio cristo. E del resto se ascolti radio tre fra le righe pensi anche di spararti sui coglioni. Però a radio tre devono sbattersene, a radio tre devono assumere degli arcieri (che, in fondo, è gente della loro generazione), degli arcieri ed equipaggiarli con frecce infuocate, infuocate di un fuoco inestinguibile, frecce infuocate di un fuoco inestinguibile da lanciare contro le antenne delle radio commerciali e delle radio vaticane e marie. Questo è servizio pubblico!

venerdì 18 maggio 2012

Mentre tutto sta finendo io sento di dover togliere.

Non crediate. Vi sto guardando.
Vi fisso, sono appoggiato ad una mensola che non conoscevo, in una stanza alta, in una casa sconosciuta. State tutti ballando, io sono fermo. Ben presto mi rendo conto che in realtà c'è un considerevole gruppo di persone che no, non sta ballando. Solite manie di protagonismo.
Tutto appare così insignificante, eppure non mi sento affatto bene. Ma cosa volevo dire?
Ora ho un ricordo: estate, anni ottanta, fa un gran caldo, di quello afoso. Sono piccolo, almeno più di mia sorella. Uccido un ragno schiacciandolo con la ciabatta, mentre mia sorella guarda inorridita, poi ridiamo insieme. Torniamo a giocare: devo distruggere la sua casa delle bambole.
Da dove è rinvenuto questo frammento? Ma cosa volevo dire? Che vorrei tornare indietro? Sento che tutto se n'è andato, è sparito dalla mia vita. Intorno non vedo esempi da seguire, non vedo modelli. E' solo pieno di coglioni e di sceme qua intorno. Cristo santo, ragazzi, c'abbiamo trent'anni!
Esempi, modelli, esempi, modelli...senza più direzione, come universitari ubriachi, sbandiamo sulle vie di una città che è nostra, ma non c'appartiene. Solitari in compagnia.
"Toh bevi" mi fai. Il tuo viso glabro, sbronzo, ondeggiante. "Come ci siamo ridotti?" chiedo, mi rispondi "Alla grande, capo!"
'Stiamo a posto, stiamo freschi' penso. Io li guardo: credo pensano d'essere immuni. Ma che cazzo c'hanno per la mente? Non si ricordano? Non l'hanno mai provato questo sentirsi inutili, fuori posto? Dimenticati e perduti? Incolpevoli e redenti? Condannati ma salvi? Ma si, ma si che l'hanno provato! L'hanno provato tutti. Ma come hanno fatto ad andare avanti, a passare oltre?
Vedo dei bei culi muoversi a ritmo della musica, in mezzo c'è chi pensa di avere avuto tutto dalla vita, mentre s'agita lo spettro di un ragazzino sullo scivolo della piscina: è una tirata, uno strappo, nulla di più.
I suoni sono ovattati. Strizzo gli occhi per un po' e poi mi ritrovo allo stesso posto. Mi sento in dovere di dire qualcosa a qualcuno, così, per non apparire scortese, antipatico o snob. Per fortuna eccoli là: c'è qualcuno che esce. M'infilo la giacca, mentre penso che non sarei nemmeno in grado di salutare nel modo giusto.
Sento di dover togliere, fare economia di segni, mentre tutto sta finendo, sia l'atmosfera festosa di questa serata, sia il mondo. Si, il mondo sta finendo e io sento di dover togliere, ad ogni passaggio: sottrarre. Restasse una pagina bianca sarebbe significativo? Significativo di cosa? Qui accade di tutto, ma non sembra accadere niente. Dovrò scegliere con cura e pazienza le parole giuste: solo allora sarà un dono vero.
Ti scorgo mentre sto chiudendo la porta dietro di me: danzi con le tue amiche ed è difficile spiegare come la leggiadria che la consapevolezza sembrerebbe portare con sé, si riveli un macigno. Che sia la mancanza di convinzione? Il timore di aver tralasciato un dettaglio non trascurabile? Forse. E resto vulnerabile, impaurito perché i miei impulsi non sono mai stati così lontani da ciò che voglio.

sabato 4 febbraio 2012

Letture

Chi vuole guardare al mondo solo con razionalità, prima o poi sarà vittima dell'irrazionalità - più rapidamente e più vistosamente di quello che desidera soprattutto vivere liberamente. La ragione non è padrona e creatrice della libertà, ma vi prende solo parte. La libertà è determinante; la ragione ne è solo uno strumento e non l'origine. Tutto ciò che è razionale o irrazionale lo è entro certi limiti; la libertà invece, che è il solo attributo divino dell'uomo, trascende ciò che è razionale e irrazionale, Mi rende libero solo quello che trascende da me . trovo me stesso là dove allo stesso tempo mi perdo.
Questo stato della libertà può avere molti nomi. In nessun caso però possiamo chiamarlo razionale. Quando Hegel accomunò Dio e lo spirito assoluto e li subordinò alla razionalità, in fondo voltò le spalle alla libertà. La libertà razionale non è libertà. Ciò che è razionale è sempre limitato, mentre la libertà è illimitata.
Nel nome di Dio, ma senza lo spirito divino: è la caratteristica dell'idea di storia che alla metà del Settecento sostituisce la storiografia redatta in base alla storia cristiana della salvezza. L'interpretazione hegeliana della storia subordina tutto ciò che è "divino" a qualcosa che è controllato dall'uomo. In fin dei conti, senza annunciarlo, sottopone tutto alla sfera d'influenza della politica - lo conferma anche il fatto che cerca una spiegazione per tutto. Anche per quello per cui evidentemente non c'è una spiegazione. Obbedendo al processo di secolarizzazione dell'età moderna non cerca l'infinito divino nascosto dietro la politica, ma al contrario: in ogni occasione possibile tenta di interpretare l'infinito divino (ovvero tutto quello che è non conoscibile dalla mente umana) secondo punti di vista politici. Per esempio, parlando delle tribù germaniche, fa notare: vivevano in comunità, ma queste non costituivano uno status politico, quindi "vivevano ancora fuori dell'ambito della storia del mondo..."1
A partire dalla seconda metà del Settecento e in misura mai vista prima, tutte le questioni culturali e teologiche avevano preso dunque una dimensione sempre più politica, a discapito della libertà. Più precisamente (poiché ciò che è illimitato non può essere trascurato), l'attenzione si era spostata dalla libertà. La fede riposta nell'esclusività delle soluzioni politiche naturalmente ha il suo aspetto latente religioso, teologico (come scriveva Donoso Cortes alla metà dell'Ottocento: al fondo di ogni question politica si nascondono sempre questioni teologiche). Poiché però le questioni teologiche (dunque quelle relative alla libertà divina) venivano trascurate a favore della questione dell'incanalamento e della controllabilità, la fede nella trascendenza diventava sempre più debole.
E' pure vero che nella filosofia della storia di Hegel - come in tutta la cultura occidentale contemporanea  - la parola "Dio" è almeno tanto ricorrente che "razionalità". Il concetto di Dio è però il sipario, dietro il quale vengono ammucchiate cose che non possono essere affatto definite divine. La caratteristica principale della politica, come si può dedurre dalla filosofia della storia di Hegel, è quella di essere fatta da uomini, con le proprie forza e seconda una presunta razionalità (che gli avversari politici - in base alla loro razionalità - naturalmente giudicano irrazionale) - al prezzo di escludere tutti quei punti di vista che sono incontrollabili, inspiegabili, "irrazionali". Dall'epoca di Hegel in poi la politica non significa solo l'iniziativa umana onnipresente, bensì l'esclusione, la divisione, lo spezzettamento, ovvero in generale la rimozione: Con le parole di Carl Schmitt:
La borghesia liberale vuole un Dio, che però non deve poter divenire attivo; essa vuole un monarca, che però deve essere privo di potere, essa pretende libertà e uguaglianza, e tuttavia anche la limitazione del diritto di voto alle classi possidenti, per assicurare all'istruzione e alla ricchezza la necessaria influenza sulla legislazione, come se istruzione e ricchezza desserero il diritto di opprimere gli uomini poveri e non istruiti; essa elimina l'aristocrazia del sangue e della famiglia e lascia però sussistere l'impudente signoria dell'aristocrazia del denaro, che è la forma più ordinaria e stupida di aristocrazia; essa non vuole né la sovranità del re né quella del popolo. Che cosa vuole essa dunque?2
note:
1- G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Volume Quarto, p.34
2-C.Schmitt, Teologia politica, in ID., Le categorie del politico, p.80

Questo era un breve estratto dal libro di Laszlo F. Foldenyi, un intellettuale ungherese, intitolato "Dostoevkij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere", forse uno dei titoli più belli di sempre (se la gioca con un paio di canzoni di Venditti, dicono). Tanto sappiamo chi se lo legge sto blog: se volete, finiti gli esami, ve lo presto.

mercoledì 25 gennaio 2012

Aggiornamenti vari

C'era questa cosa che forse riapriva lynke-d, giusto per sfruttare tutti i mi piace che ha su feisbuc (ben 829, per dire: La nuova Vicenza ne ha 529!) e in pratica si lasciava perdere tutta una serie di cose che si erano provate a fare e ci si metteva a fare promozione musicale e recensioni cinematografiche (brevi).
Poi c'era quest'altra cosa che alcune righe di Roland Barthes stavano ispirando un mio racconto fin troppo lungo, poi ho visto Shame che più o meno parlava (anche) della stessa cosa, poi c'era un simpatico post di Antonio Pascale su ilPost.it sempre sul porno. Tante coincidenze.
Bene, parliamo di Shame: davvero un bel film, molto valido. L'ho visto all'araceli, un cinema in cui non metterò più piede per molto tempo, davvero una delle peggiori proiezioni cui abbia mai assistito.
Di questo film parlerò più dettagliatamente nel numero 10 de La Lotta Armata Al Bar (che dovrebbe uscire a marzo), qui vi posto solo la recensione breve che avevo scritto per lynked.




Shame (****-)
Un film di Steve McQueen. Con Michael Fassbender, Carey Mulligan, James Badge Dale. Drammatico, colore, 99 min. Gran Bretagna 2011.


Un eccellente Michael Fassbender (A Dangerous Method, X-Men – L'inizio) interpreta Brandon, uomo d'affari newyorchese che passa il tempo, fra una conquista e l'altra, consumando quantità industriali di pornografia. Qualcosa però cambia quando gli piomba in casa la sorella, un ipersensibile Carey Mulligana (Drive). Nel suo secondo lungometraggio Steve McQueen approda negli Stati Uniti, il regno dell'immagine: in una New York fredda, de-saturata e artificiale il protagonista si muove alla disperata ricerca dell'orgasmo, ricercando il sesso in tutti i modi possibili, percorrendo la strada che porta alla vergogna (Shame, appunto) e allontanando da sé ogni sentimento. Eppure, nella frenesia del consumismo, qui al suo ultimo stadio, quello che cancella le emozioni, una lacrima trova ancora il modo di rigare il viso: lo scontro con la sorella (la sua famiglia) diventa l'àncora di salvezza dalla disaffezione. E' una rappresentazione dell'occidente impietosa, tanto amara quanto reale; un film che approfondendo il lato più oscuro della società dimostra la sua enorme ed importante valenza politica.



Altre notizie:
-dovrebbe partire a breve una piccola rassegna cinematografica al cinema odeon curata da me e promossa da Stefano Poggi, se non vi saranno colpi di scena il programma dovrebbe essere il seguente: Pulp fiction, Tre colori: film blu, Natural born killers, Leon, Festen, L'esercito delle 12 scimmie, Rosetta, Strade perdute. Come forse avrete evinto si tratterà di un viaggio nel cinema d'autore degli anni '90, una scelta volta a combinare l'interesse del pubblico con l'interesse cinefilo più specifico, in modo non dico da riempire la sala, ma da non essere nemmeno quattro stronzi con la puzza sotto al naso. Comunque il programma non è ufficiale, quindi se avete consigli, suggerimenti o appunti da fare commentate pure
-infine, la rubrica che LLAAB ha dedicato al cinema nell'ultimo numero, "Fotogramma chiave", verrà riproposta da qui in avanti, sempre a cura del sottoscritto, e si occuperà di volta in volta di un film di recente uscita e di un film invece più in là con gli anni (fatemi sapere se avete preferenze, visto che non ho ancora deciso di cosa parlerò potrei venire incontro alla vostra volontà, perché no?)

martedì 17 gennaio 2012

Fammi sapere come va l'esame

Va bene mamma.

sms#1 "30 e lode!"
sms di risposta "Veri god"

mercoledì 11 gennaio 2012

Frullato

Addormentatomi fin troppo lentamente, come al solito, mi risveglio verso mezzogiorno e mezzo. "E' abbastanza presto" mi dico con soddisfazione e mi ributto a dormire.
Quando mi risveglio potrebbero essere passati cinque minuti come due ore: per fortuna è l'una e un quarto. Mi alzo, mi vesto, piscio, mi sciacquo il viso e vado a fare colazione. Una tazzina di latte e tutti i pan di stelle rimasti (quattro, che tristezza...) più un bicchiere di succo d'ananas.
Come al solito, a questo punto della giornata, decido che di tempo per studiare ce n'è per cui posso anche andare al computer a nonfareunasega.
Risulterà evidente anche a voi che, con una colazione del genere, sia necessario rimpinzarsi prima di affrontare un qualsivoglia libro per un qualsivoglia esame di un qualsivoglia corso universitario. Anche se questo corso universitario si chiama DAMS e questo libro si chiama Storia sociale della fotografia ed è pieno di foto.
Ma torniamo al punto: la merenda.
Folgorato nella notte, in quei lunghi istanti in cui pago il mio quotidiano fancazzeggio mentre vorrei dormire ma devo sforzarmi per tenere gli occhi chiusi, avevo deciso di farmi un frullato (che nella mia immaginazione era un po' diverso e per di più avevo contemplato l'idea di renderlo fortemente alcolico, ma non importa).
La ricetta: una mela (grande), un arancio (piccolo), mezzo bicchiere di succo d'ananas, ghiaccio a volontà.
In pratica mi metto a fare cocktail analcolici estivi l'undici gennaio, ma è un po' tutta la vita che sbaglio i tempi.
Comunque la procedura è questa: prendete il frullatore e provate a vedere se funziona, o almeno a casa mia conviene fare così visto che ci si mette sempre un dieci-quindici minuti a capire come mai non parte. Dopodiché si sbuccia l'arancio e lo si mette dentro, si taglia la mela e la si pela (operazione difficile e oltremodo fastidiosa, in generale non fatelo! anche perché la buccia è buona ed è piena di sostanze nutritive), si aggiunge il succo d'ananas e poi i cubetti di ghiaccio; chiudete bene il frullatore e azionatelo per un buon lasso di tempo: la mela è tanta, il ghiaccio è duro: si necessita di un po' di tempo per frullarli bene, ma non preoccupatevi perché anche se restano pezzettoni di mela non è affatto male, anzi! mentre il ghiaccio si scioglie un po' alla volta e di sicuro non rovina troppo il risultato anche se il cubetto è diminuito di poco.
Verrà fuori una brodaglia densa e arancione dove la purea di mela avrà la meglio. Il sapore, grazie all'ananas, avrà un che di esotico: vi consiglio di guarnire il bicchiere (rigorosamente da cocktail) con una cannuccia e un ombrellino mignon, non so come si chiamano di preciso ma ci siamo capiti sicuramente.
I dettagli: ho usato il succo d'ananas optimum della yoga che c'ha il 70% di ananas, penso che con un 100% venga anche meglio, poi della optimum yoga consiglio quello alla pesca: se siete degli  appassionati di questo succo sul serio non potete farvelo mancare perché con il 70% di pesca è assolutamente un must, buonissimo!; inoltre sono convinto che con una mela più piccola (per la cronaca: ne ho usata una verde-rossastra biologica, penso che vadano bene tutte eh, a seconda dei vostri gusti) e un'arancia più grossa sarebbe riuscito meglio.
Io l'avevo immaginato con la banana, ma verrebbe ancora più densa. Con la carota? Non so, a me non piace mischiare frutta e verdura, no lo dico perché c'è gente che si fa le insalate con l'arancia o il mandarino o cose così, ma io non sono proprio fra quelli. Poi, passi il succo di carota, ma frullata non si amalgama per niente per via della consistenza troppo croccante rispetto a quella della frutta.
Poi, ovviamente, sarebbe meglio usare frutta di stagione a)perché è più buona b)perché è più salutare, io però adesso non sono uno che se ne intende di cosa è di stagione e cosa no, per cui vedete un po' voi.
Il risultato tutto sommato è stato discreto, magari con qualche fighettata tipo foglioline di menta viene una sburrata assurda, non saprei. Poi può tornare utile per fare cocktail esotici alla vostra festicciola privata, e mi raccomando il GHB ragazzi, davvero f-o-n-d-a-m-e-n-t-a-l-e in occasioni speciali.
Infine sulle proprietà nutritive: il mio frullato passa su tutta la linea, tutte le vitamine necessarie e le fibre e le cose che ci servono e in più un fracco di buoni zuccheri che ci danno la carica per studiare e affrontare la nostra sessione di esami.

martedì 3 gennaio 2012

Il teatro morto della Morte

Che cos'è che sta per annullarsi con questa foto che ingiallisce, scolorisce, si cancella e che un giorno sarà gettata nella spazzatura, se non da me - troppo superstizioso per far questo - per lo meno alla mia morte? Non solo la "vita" (questo è stato vivo, ha posato vivo davanti all'obbiettivo), ma anche, a volte, come dire? l'amore. Davanti all'unica foto in cui mio padre e mia madre sono ritratti insieme, di loro che so che s'amavano, io penso: ciò che sta per scomparire per sempre è l'amore come tesoro; infatti quando io non ci sarò più, nessuno potrà più darne testimonianza: non resterà altro che l'indifferente Natura. Abbiamo qui un dolore talmente straziante, talmente intollerabile, che, solo contro il suo secolo, Michelet concepì la Storia come un'Attestazione d'amore: perpetuare, non solo la vita, ma anche ciò che, nella sua terminologia, oggi fuori moda, egli chiamava il Bene, la Giustizia, l'Unità, ecc.
da La camera chiara di Roland Barthes, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2003.

mercoledì 28 dicembre 2011

Miglior disco del 2011

La copertina.
Devo dire la verità, se non avessi letto la (non) classifica di legno, non sarei qui, nel senso che forse non ne avrei avuto il coraggio. Di sbilanciarmi intendo. Perché i Distanti, io, è da quando li conosco che dico che sono il meglio, ma i miei amici mi guardano male. Poi siamo andati a vederli live e miei amici han detto che insomma, si, va beh. Il giorno dopo siamo andati a vedere gli offlaga ed erano tutti entusiasti. Ma ci può anche stare dico io, anche perché il pezzo grosso non c'era ancora.
Il pezzo grosso è Mamba nero.
Cinque pezzi per circa quindici minuti, di cui so dirvi poco perché non suono, non so suonare, non so come funziona la musica. Io premo play e godo o meno, ascolto i testi e tanti saluti. Quindi è un miglior disco molto soggettivo, ma si era capito. Ma era inevitabile.
Perché Mamba nero è il pezzo grosso? Perché il primo ep spaccava ma non si capiva una sega, era di un male registrato da volerci benone, quello si, ma non si capisce una sega, mentre Enciclopedia della vita quotidiana era un lavoro interessante, volutamente non piacevole da ascoltare, dove i testi variavano tra il complesso e il criptico. Insomma, qualcosa che richiede ascolti, impegno, parafrasi. Operazione non facile e nel frattempo quel tiro, quella goduria che nel primo ep sprizzava da tutte le parti, si eclissava in nome di suoni ossessivi, belli ma non incisivi.
Che, per quanto fosse un buon lavoro, mancasse ancora qualcosa i Distanti penso l'abbiano capito perché Mamba nero segna si un punto di equilibrio fra i due lavori, ma non per sottrazione, anzi. Lo si nota in primis dal dettaglio, puramente quantitativo, della durata dei pezzi, che sono anche più costruiti, più strutturati musicalmente, registrati bene (non che Enciclopedia... non lo fosse, ma non lo era il primo ep). La voce si sente bene ed è impastata con la musica come dio comanda; c'è di nuovo quel tiro, si diverso, cambiato, ma lo senti che sono i Distanti.
Di cosa parla Mamba Nero? Così su due piedi è difficile dirlo. Misantropia forse, uno scontro fra se stessi e la società in cui si vive, ma soprattutto di storie sofferte: piccole sconfitte quotidiane rivisitate con un po' di coraggio ed onestà. In più, rispetto ai lavori precedenti, io ci trovo un maggiore ottimismo perché le soluzioni s'intravedono.
Il primo pezzo, Tolleranza al dolore, richiama l'animale che da il titolo al lavoro. L'autore ne veste i panni o almeno ci prova: atterra la giraffa, uccide il re leone. Come dire: in questo album andiamo al sodo, vi squartiamo; io comando. In realtà quest'analisi è subito fugata dall'interpretazione del cantante: basta sentire quel coro che procede convinto con "e uccide il re leone!" mentre la voce, in ritardo e dimessa, ribadisce il concetto svuotandolo, anzi inseminandolo di un significato altro e opposto.
Bologna è un pezzo di quelli che io dubito di capire, sul serio. Posso azzardare delle ipotesi, potrei limitarmi a dire che è il loro primo pezzo in cui si sente la seconda voce e che questa arricchisce non poco l'arrangiamento, possiamo, visto quello che ho scritto poche righe sopra, notare il finale: ma non devi chiedere questo(questo cosa? un compromesso? del resto il protagonista del pezzo sembra essere un ragazzo in cerca di "un centro di gravità permanente")/ è come battere la lingua sul tamburo/ devi pretendere sempre/ operazioni irreversibili.
Astronomie...ecco se Bologna non si capiva, di questa cosa possiamo dire? Una coppia con dei problemi relazionali? Cosa centrano i cani? E l'anno bisestile? In ogni caso su di loro, su i Distanti e su di noi hanno vegliato le stelle ma(c)che(') non possono farci niente.
A fine giornata è invece l'inno dei misantropi: mentre tutti saltano e urlano cantando "siamo solo noi", inconsapevoli commilitoni d'una armata Brancaleone, l'insoddisfazione, la rabbia e una desolante sensazione d'impotenza prendono corpo nel protagonista. Devi fare le cose come se non fossero fatte per te/ come se tu fossi fatto per te
Infine Foglie di fico: un invito ad uscire allo scoperto, a gettare all'aria i nostri alibi (Basta parlare come fischiare, basta chiamare cani, ora mastica foglie di fico senza sputi, voglio vedere che ingoi quello che predichi). Ne esce (in/volontariamente?) un quadro generazionale, di gente spenta al timone, insicura, che predica bene e razzola male, con in mano un giornale o un settimanale: ma servono solo a darsi un tono, a nascondere l'incapacità d'essere protagonisti della propria vita. 
E oltre a tutto ciò utilizza la parola deuteragonista.  
In fin dei conti questo lavoro non fa altro che ribadire (e lo fa meglio) la politica dei Distanti: un'analisi lucida e spietata del proprio vivere quotidiano, una disamina senza sconti della meglio gioventù, perché lo strepitio dei distanti non è necessità di esprimersi, non è un semplice sfogo, bensì è l'urlo disperato dell'osservatore attento, cosciente e onesto. E tutto (questa, in fondo, è la cosa importante) è proposto tramite una scrittura, musicale e non, potente, brillante, feconda e piacevole. 
Rubo le parole a qualcuno, ma è piuttosto un condividerle: sono il miglior gruppo italiano, mamba nero è un capolavoro ed enrico, cantante e autore dei testi, è un eroe.
Le foto di gruppo, devono essere un disagio per chi suona.

lunedì 26 dicembre 2011

Miglior spot del 2011

Lungi da me pensare che la pubblicità possa avvicinarsi all'arte (poi, parliamone, cos'è l'arte?), ciò non toglie che sia un linguaggio interessante da molti punti di vista.
In un'epoca come quella che viviamo, vendere un'auto è diventata una questione filosofica. Ogni auto un modo diverso di intendere la vita, di affrontarla. Anche per questo motivo lo spot dell'Opel Insignia merita il nostro umile premio dato che parla di un'automobile punto e basta. Ecco punto e basta una sega, perché in realtà, in pochissimi secondi, lo spot ti cala in un'atmosfera, guida la tua immaginazione verso l'idea di fondo (compra questa cazzo di auto) facendo dunque il suo lavoro senza calcare la mano con inutili discorsi letti da Giancarlo Giannini o Luca Ward. Per fare ciò utilizza una messa in scena potente, fatta di immagini frammentarie, con uno stile da avanguardia sperimentale: un occhio in primo piano chiuso che poi si apre, pezzi di auto che sono pezzi di luce e di buio gettati in pasto all'occhio, vero, dello spettatore . Dicevo prima che si viene calati in una certa atmosfera, del tutto particolare.  Questo accade anche grazie all'interessante uso dell'audio con questa voce effettata, che non può che colpire lo spettatore, farlo rendere conto che quello che vede è diverso da tutto il resto.
La pubblicità, contraddicendo quanto ho scritto prima, s'ascrive all'arte visiva. Si tratta di cose delicate da trattare, dunque di materiali difficili da maneggiare e farlo fuori dal coro, tracciando un nuovo perimetro e riuscendovi in pieno, ecco che diventa cosa lodevole.

mercoledì 21 dicembre 2011

Lo sceneggiatore

Doveva consegnare un nuovo copione, corretto secondo le indicazioni, per lunedì. "Un bel weekend" s'era detto con sarcasmo, predisponendosi a una maratona di scrittura creativa. Non fu così: chiaramente si uscì a bere, ma quel venerdì sera regalò poca soddisfazione, ancor meno il sabato.
Il film che stava scrivendo parlava (doveva parlare) di un tale, ben piazzato, col coraggio da leone. Sfidava i poteri forti a suon di mitra, una cosa insolita per il cinema italiano. Non una rivisitazione delle pellicole alla poliziottesche, ma comunque una cagata senza ombra di dubbio.
Certo il nostro aveva altro di che pensare, perché faceva si il lavoro che voleva fare, ma non era come se l'aspettava, cosicché s'impegnava in altre cose: mentre, grosso modo, tutti e tutte ballavano più o meno a ritmo e più o meno spensierati, lui se ne stava al bancone della discoteca ordinando un cazzo di drink del cazzo. Dopo quindici minuti, con i baristi che non si accorgevano che fosse in fila, lì, solo ad aspettare come un cane, ricevette da un barman incamiciato, elegante ma volgare, un bicchiere pieno di ghiaccio e bagnato di lemon soda allungata e gin. Otto euro. Quando il ragazzo bucò il quadratino della drink card pensò "ladri" e se ne andò stizzito. Tornò in mezzo alla folla e ballò come peggio non poteva, immaginandosi ubriaco per non pensare a quale madornale figura di merda stesse facendo.
La domenica notte, o meglio il lunedì mattina, passò invece lentamente mentre se ne stava seduto tutto sudato di fronte allo schermo del mac. Ringraziando dio la cartuccia della stampante era carica e il giorno seguente si presentò al lavoro con il copione pronto e redatto come gli era stato richiesto.
Giunse quindi la noia: questi produttori (non il regista) dovevano valutare il lavoro, c'avrebbero impiegato dei giorni.  Sfruttò l'occasione per tornarsene alla città natale e dire a mamma che era tutto a posto e che le voleva un mondo di bene. Lo fece, nonostante la stessa continuasse a porgli ripetutamente le medesime domande fatte un attimo prima, come in preda ad una particolare forma di Alzheimer. Il padre, non ne parliamo.
Dopo il pranzo, insoddisfacente, se ne andò a stendersi sul letto, spoglio, della sua vecchia camera, spoglia. Fu lì che si convinse: ci vuole una svolta, un bel film che faccia ridere, ma riflettere, lo faccio leggere al produttore, gli piace e mi fa "perché non lo dirigi tu". E via.
Baci sulla guancia a tutti, compresa la sorella e il di lei marito, giunti al pomeriggio.
Presa l'autostrada per tornare a Roma, già all'altezza di Bologna aveva perso ogni entusiasmo e non si ricordava più dell'ebbrezza di quel progetto. Nella direzione contraria intanto, inseguendo il miraggio di una gran serata, viaggiava una piccola auto, una polo volkswagen, piena. All'interno si rideva o si protestava per la musica. Alla fine drum'n'bass  "e vaffanculo tutti sapete!". Uno dei ragazzi, seduto dietro, si sentì solo guardando fuori dal finestrino le gocce d'acqua spingersi verso il basso e verso destra.
Fu qualche autogrill più a sud che il nostro sceneggiatore, addentando una piadina di gomma, ebbe l'immagine che in pochi mesi si trasformò in sceneggiautra. Un gran bel film, si prospettava.
Nulla a che vedere con quanto, sul letto di cui prima, aveva ricordato, con una cosa a metà tra il sorriso e la bestemmia: lei che baciava lui, al rallentatore. "Ci costruisco su un film" aveva pensato all'epoca "Ci costruisco su un porcodio" aveva chiosato con realismo. Lei baciava lui, mentre se ne stava, come un coglione, come al solito, a ballare fingendo disinteresse, distanza, menefreghismo.
Non era stato facile fingere tutto il tempo: non solo di non essersi attaccato all'idea di volerla (agli altri), ma anche di averne bisogno (a se stesso), soprattutto di aver cercato di averne bisogno allorquando l'unico vero grande immenso desiderio era lontano centinaia e centinaia di chilometri di distanza, fisici e non solo.
Sorseggiando l'ultimo costoso drink aveva puntato un'altra, una bruttina simpatica che spasimava per lui. Aveva il preservativo dietro e lo usò: la scopò per un'ora e qualcosa in molte posizioni, procurandole all'incirca quattro orgasmi e godendo molto quando venne, non godendo un cazzo dopo essere venuto ché respirava forte per i cazzi suoi nella camera di lei, con i poster di lei e tutte le cose di lei di cui non gli fregava un cazzo: la nobile arte del farsi schifo.
"Allora questo film, parla di un vecchio parlamentare...": sfrecciando verso la capitale proseguì nel suo ragionamento, per le tre ore che lo separarono dal grande raccordo anulare.
"Vedi, io lo so già cosa devi dirmi. L'ho capito da come hai posto la questione anche se sono un tipo dubbioso, perché ci spero sempre alla fine, ma più che altro è che vaglio troppe ipotesi e non so sceglierne una più giusta delle altre. Si, si lo so come vanno queste cose: tu si, ma però; sarebbe bello, ma non è così; mi dispiace eccetera. Ecco va sempre esattamente così. Scusami se te lo faccio pesare, è che per una volta nella vita vorrei essere sorpreso. Essere felice da farmi schifo, da provare un qualche senso di colpa. Tu che mi sorprendi, che mi ami da impazzire. E vabbè, del resto non ci sono molti motivi per convincerti del contrario, del non far andare così le cose insomma...io stesso fatico a trovare dei motivi per convincerti del contrario di ciò che stai per dirmi! E anche se fosse, cazzo conterebbe? Dico, se le avessi le motivazioni? Non è un soppesare, l'amare. No? Lo sai bene e lo so bene. Perdonami il monologo retorico e tutto il resto, ma per un po', pur convincendomi giorno per giorno di compiere una cazzata, ho sognato un finale diverso. Titoli di coda!"
Egli mica se le ricordava queste parole che non disse mai, ricordava il dramma si, con l'aria distante e il sorriso poco sincero. Le aveva pensate la sera prima di andare in contro al fatale destino di un abbandono.Voleva un colpo di mano: far cambiare le cose. Ovviamente non andò così e tutto si perse un po' per volta.
Giunto a Roma, buttò giù delle idee per questo film. Per la svolta. Non le approfondì e i produttori chiamarono e dissero "Buono il copione adesso". Venne fuori un film di merda; accese la tivù e non ci pensò. Il giorno dopo scrisse e quello dopo ancora. Si buttò su un romanzo, poi su un'altra donna poi sul giornalismo et cetera, senza venirne a capo, proseguendo nella sua mediocrità. Questa gli dava calma, lo acquietava senza soddisfarlo del tutto, ma, come prima, non ci pensava, allenato com'era ad accontentarsi: scrivo un film sulla bellezza della vita, anche se la mia mi fa schifo; lo so: è colpa mia, potrei fare di meglio, ma non lo faccio (non lo so perché) e mando tutto in vacca, continuamente; arte è autocritica, allora mi autocritico; "...no, ma perché non è che c'è da capire..."; "per rendere umano un personaggio, la cosa più semplice è dargli un sogno"; speriamo che agli altri vada meglio; degli altri non me ne frega un cazzo; non so cosa fare.

*è una specie di numero 2 di questo qua http://savoirnotfaire.blogspot.com/2011/05/il-cinefilo_16.html

sabato 10 dicembre 2011

Repetita iuvant?



MIDNIGHT IN PARIS (**---)
Un film di Woody Allen. Con Owen Wilson, Marion Cotillard, Rachel McAdams, Kathy Bates, Adrien Brody. Commedia, durata 100 minuti. USA 2011.

E' recentemente uscito in Italia il nuovo film di Woody Allen. E' da un po' di tempo che, trattandosi del regista newyorchese, la critica cinematografica si spacca in due direzioni: da una parte l'approvazione a prescindere e dall'altra la stroncatura sistematica. Entrambe le posizioni muovono da ragionamenti in parte condivisibili e che in Midnight in Paris trovano conferme. Si, perché l'ultimo sforzo di Allen promette, ma non mantiene; riesce, ma delude. Com'è possibile? Il film in questione ripropone le consuete battute sulla psicologia, sulle pillole, sui conservatori e via dicendo, insomma un bell'assortimento di tutti i cliché che già si erano consolidati film dopo film; le tesi del film, sono anch'esse quelle di sempre, dal “basta che funzioni” al dovere dell'artista di non ammorbare il pubblico con i suoi problemi, ma di proporre delle soluzioni; pure il romanticismo, sempre apprezzato, è lo stesso già ammirato nei vecchi film, tant'è che Gil Penders ama Parigi esattamente come Isaac Davis ama Manhattan, per dirne una. Su due piedi diremmo “un film di Allen per alleniani”, ma non è così: come dimostra il sorprendente successo di pubblico e critica oltreoceano, c'è qualcosa in più (o in meno).
Difatti il gioco intellettuale, non è poi così alto: il protagonista, magicamente catapultato negli anni venti parigini, incontra personaggi noti e culturalmente eminenti, come Hemingway o Gertrude Stein o i coniugi Fitzgerald, ma queste celebrità sono portate alla macchietta come bene evidenzia la gag al bistrot con Gil Penders seduto al tavolo con Dalì, Buñuel e Man Ray: i quattro non danno vita a geniali discussioni, bensì ad un siparietto leggero e godibilissimo (forse l'apice comico del film, grazie anche all'abilità di Adrien Brody che veste brillantemente i panni di Salvardo Dalì). E nemmeno la parte ambientata nel duemiladieci è complessa, anzi: i rapporti fra i personaggi sono tanto schematici da regalare prevedibilità e risultare poco credibili (non si capisce, del resto, come mai Gil e la fidanzata Ines stiano insieme).

Evidentemente né l'una, né l'altra cosa interessavano ad Allen: il film non è né intellettualoide né un esercizio di stile da commediografo navigato. Assomiglia più ad una riflessione, l'ennesima, sull'arte e sulla vita. Oltre al pericolo, che Allen non riesce ad evitare, della ripetitività il vero (non) problema è che questi sembra aver trovato le risposte: non è “alla ricerca”, insomma se l'artista non deve deprimere, ma consolare ecco allora il lieto fine fin troppo semplicistico e scontato, mentre nella vita, nonostante l'insoddisfazione, alla fine una soluzione si trova, “basta che funzioni”, no?
Allora è forse vero che Allen non ha più nulla da dire, che, in fondo, negli ultimi anni il prolifico Woody è diventato troppo prolifico, finendo per risultare scotto, insipido, inutile? Tesi questa, supportata anche da una messa in scena piuttosto insignificante, trasparente quanto basta, per niente sperimentale. Però nemmeno in Midnight in Paris manca la “paura di morire”, altro grande tema fin dai tempi di Amore e Guerra: anche questo è un quasi-tormentone, qui reincarnato nelle movenze e nelle parole di Owen Wilson (che, con la sua popolarità presso il pubblico non tipicamente alleniano, ha giocato sicuramente un ruolo importante nel successo di pubblico). E' proprio questo il punto: gli anni passano e Allen pur invecchiando continua a sfornare film, come un “manovale hollywoodiano” ne fa uno dopo l'altro, anno dopo anno, andando evidentemente in contro a dei passi falsi, ma che non lo sono mai del tutto, proprio perché quel suo tocco, frutto di tutte quelle nevrosi esposte negli anni dribblandone la drammaticità con abilità comica tanto notevole da far vibrare
le corde dei sentimenti assieme all'istinto della risata, adorabile ed elegante, rimane (seppur indebolito dalla serenità che il tempo sembra aver portato in dote) come antidoto al piattume tipico dell'industria cinematografica. E' come se Allen fosse (quasi) guarito dalle sue nevrosi e ciò comporta, strano a dirsi, un abbassamento della posta in gioco (la soluzione diventa semplice, chiara, manifesta) finendo per livellare il film stesso e renderlo così scontato e banale per il pubblico più colto (o forse più snob?), apprezzabile per i fan di sempre e aperto al grande pubblico, quello meno esigente dal punto di vista intellettuale. Questo accade perché il film, oltre ai difetti che abbiamo esplicitato fino ad ora, annovera anche dei pregi, a partire da un cast che oscilla tra il discreto e l'eccellente: Wilson tiene banco nel difficile compito di interpretare sia Gil Penders sia Woody Allen, i comprimari sono all'altezza della situazione e, se di Brody abbiamo già detto, vogliamo parlare di Marion Cotillard? Prova sublime la sua, nelle vesti della femme fatale, all'altezza delle altre (se non addirittura superiore) muse di Allen, dalla Keaton alla Johansson, passando per Mia Farrow, mentre chiudiamo più di un occhio sull'inutile presenza della Bruni (relegata in pratica al cammeo, forse per le doti di recitazione della stessa? il dubbio è forte...). Le musiche (il solito jazz, soprattutto Cole Porter), la fotografia, tutto fila liscio ed anche la mise en scene, da questo punto di vista, risulta efficace: l'ora e quaranta scorre che è una meraviglia.

La questione, quella vera, non è se Allen fa o non fa più film, come lo accusano i maggiori detrattori, ma se questo tipo di cinema non finisca per essere conservatore ben aldilà delle intenzioni dello stesso autore, che ha raggiunto un pubblico più vasto, ma pagando il prezzo della “consolazione”. Forse tanto valeva non alzare il tiro, concedendosi ad un divertissement alla Scoop, ma il problema rimarrebbe; è la nuova sfida per l'ultimo Allen: produrre ancora un cinema propositivo e vitale, non conservatore e al tempo stesso nuovo, poiché il repetita iuvant, nel cinema d'autore, lo dimostra Midnight in Paris, funziona sino ad un certo punto.




Legenda
(-----) : schifezza immonda
(*----): inutile
(**---): si può vedere
(***--): da vedere
(****-): assolutamente da vedere
(*****): capolavoro

domenica 27 novembre 2011

La verità ti fa male lo so/1

Credo di provare non più di quattro sentimenti: invidia, gelosia, accidia ed ansia (sempre che siano sentimenti). Ma, a dirla tutta, volevo solo dire che bisogna stare attenti ai giapponesi: un popolo che mette l'effetto pixel sopra peni e vagine è un popolo che non la racconta giusta.

mercoledì 16 novembre 2011

Black Mamba!

Porcoggggiuda è uscito il disco dei distanti.
Un'ep lungo quasi quanto lo scorso lp (cinque canzoni, quindici minuti). In parte sembrano un'altra band. La voce (che qui raggiunge nuove vette, altissime, che comunque negli altri dischi s'intuiva essere tanta roba) è registrata e missata meglio di Enciclopedia...
(del primo demo non stiamo neanche a parlarne).
Solo è un peccato che non ci sia uno scritto d'introduzione (come invece per i due precedenti lavori). Tanto non si capisce 'na mazza direte... Mah, vabbè, io una mia idea me la faccio.
Cazzo è un discone. Porca pupazza.

ps:poi un giorno un bel postone su tutta la discografia lo si fa