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sabato 10 dicembre 2011

Repetita iuvant?



MIDNIGHT IN PARIS (**---)
Un film di Woody Allen. Con Owen Wilson, Marion Cotillard, Rachel McAdams, Kathy Bates, Adrien Brody. Commedia, durata 100 minuti. USA 2011.

E' recentemente uscito in Italia il nuovo film di Woody Allen. E' da un po' di tempo che, trattandosi del regista newyorchese, la critica cinematografica si spacca in due direzioni: da una parte l'approvazione a prescindere e dall'altra la stroncatura sistematica. Entrambe le posizioni muovono da ragionamenti in parte condivisibili e che in Midnight in Paris trovano conferme. Si, perché l'ultimo sforzo di Allen promette, ma non mantiene; riesce, ma delude. Com'è possibile? Il film in questione ripropone le consuete battute sulla psicologia, sulle pillole, sui conservatori e via dicendo, insomma un bell'assortimento di tutti i cliché che già si erano consolidati film dopo film; le tesi del film, sono anch'esse quelle di sempre, dal “basta che funzioni” al dovere dell'artista di non ammorbare il pubblico con i suoi problemi, ma di proporre delle soluzioni; pure il romanticismo, sempre apprezzato, è lo stesso già ammirato nei vecchi film, tant'è che Gil Penders ama Parigi esattamente come Isaac Davis ama Manhattan, per dirne una. Su due piedi diremmo “un film di Allen per alleniani”, ma non è così: come dimostra il sorprendente successo di pubblico e critica oltreoceano, c'è qualcosa in più (o in meno).
Difatti il gioco intellettuale, non è poi così alto: il protagonista, magicamente catapultato negli anni venti parigini, incontra personaggi noti e culturalmente eminenti, come Hemingway o Gertrude Stein o i coniugi Fitzgerald, ma queste celebrità sono portate alla macchietta come bene evidenzia la gag al bistrot con Gil Penders seduto al tavolo con Dalì, Buñuel e Man Ray: i quattro non danno vita a geniali discussioni, bensì ad un siparietto leggero e godibilissimo (forse l'apice comico del film, grazie anche all'abilità di Adrien Brody che veste brillantemente i panni di Salvardo Dalì). E nemmeno la parte ambientata nel duemiladieci è complessa, anzi: i rapporti fra i personaggi sono tanto schematici da regalare prevedibilità e risultare poco credibili (non si capisce, del resto, come mai Gil e la fidanzata Ines stiano insieme).

Evidentemente né l'una, né l'altra cosa interessavano ad Allen: il film non è né intellettualoide né un esercizio di stile da commediografo navigato. Assomiglia più ad una riflessione, l'ennesima, sull'arte e sulla vita. Oltre al pericolo, che Allen non riesce ad evitare, della ripetitività il vero (non) problema è che questi sembra aver trovato le risposte: non è “alla ricerca”, insomma se l'artista non deve deprimere, ma consolare ecco allora il lieto fine fin troppo semplicistico e scontato, mentre nella vita, nonostante l'insoddisfazione, alla fine una soluzione si trova, “basta che funzioni”, no?
Allora è forse vero che Allen non ha più nulla da dire, che, in fondo, negli ultimi anni il prolifico Woody è diventato troppo prolifico, finendo per risultare scotto, insipido, inutile? Tesi questa, supportata anche da una messa in scena piuttosto insignificante, trasparente quanto basta, per niente sperimentale. Però nemmeno in Midnight in Paris manca la “paura di morire”, altro grande tema fin dai tempi di Amore e Guerra: anche questo è un quasi-tormentone, qui reincarnato nelle movenze e nelle parole di Owen Wilson (che, con la sua popolarità presso il pubblico non tipicamente alleniano, ha giocato sicuramente un ruolo importante nel successo di pubblico). E' proprio questo il punto: gli anni passano e Allen pur invecchiando continua a sfornare film, come un “manovale hollywoodiano” ne fa uno dopo l'altro, anno dopo anno, andando evidentemente in contro a dei passi falsi, ma che non lo sono mai del tutto, proprio perché quel suo tocco, frutto di tutte quelle nevrosi esposte negli anni dribblandone la drammaticità con abilità comica tanto notevole da far vibrare
le corde dei sentimenti assieme all'istinto della risata, adorabile ed elegante, rimane (seppur indebolito dalla serenità che il tempo sembra aver portato in dote) come antidoto al piattume tipico dell'industria cinematografica. E' come se Allen fosse (quasi) guarito dalle sue nevrosi e ciò comporta, strano a dirsi, un abbassamento della posta in gioco (la soluzione diventa semplice, chiara, manifesta) finendo per livellare il film stesso e renderlo così scontato e banale per il pubblico più colto (o forse più snob?), apprezzabile per i fan di sempre e aperto al grande pubblico, quello meno esigente dal punto di vista intellettuale. Questo accade perché il film, oltre ai difetti che abbiamo esplicitato fino ad ora, annovera anche dei pregi, a partire da un cast che oscilla tra il discreto e l'eccellente: Wilson tiene banco nel difficile compito di interpretare sia Gil Penders sia Woody Allen, i comprimari sono all'altezza della situazione e, se di Brody abbiamo già detto, vogliamo parlare di Marion Cotillard? Prova sublime la sua, nelle vesti della femme fatale, all'altezza delle altre (se non addirittura superiore) muse di Allen, dalla Keaton alla Johansson, passando per Mia Farrow, mentre chiudiamo più di un occhio sull'inutile presenza della Bruni (relegata in pratica al cammeo, forse per le doti di recitazione della stessa? il dubbio è forte...). Le musiche (il solito jazz, soprattutto Cole Porter), la fotografia, tutto fila liscio ed anche la mise en scene, da questo punto di vista, risulta efficace: l'ora e quaranta scorre che è una meraviglia.

La questione, quella vera, non è se Allen fa o non fa più film, come lo accusano i maggiori detrattori, ma se questo tipo di cinema non finisca per essere conservatore ben aldilà delle intenzioni dello stesso autore, che ha raggiunto un pubblico più vasto, ma pagando il prezzo della “consolazione”. Forse tanto valeva non alzare il tiro, concedendosi ad un divertissement alla Scoop, ma il problema rimarrebbe; è la nuova sfida per l'ultimo Allen: produrre ancora un cinema propositivo e vitale, non conservatore e al tempo stesso nuovo, poiché il repetita iuvant, nel cinema d'autore, lo dimostra Midnight in Paris, funziona sino ad un certo punto.




Legenda
(-----) : schifezza immonda
(*----): inutile
(**---): si può vedere
(***--): da vedere
(****-): assolutamente da vedere
(*****): capolavoro

1 commento:

meghele ha detto...

mi è piaciuta molto la recensione devo confessarti, e mi ha quasi convinto a rivalutare il film (in peggio, visto che tre stelle e mezzo io le avrei date). Il grande, insormotabile problema del Woody da più di una decade è che non riesce a raggiungere un'apice. I suoi ultimi film sono tutti godibilissimi, intellettualisti, ma nessuno riesce ad essere un ottimo film (con l'eccezione, secondo me, di match point).
La cosa che però porta un po' più in alto midnight in Paris rispetto agli ultimi film è proprio il mischiare le sue ultime esperienze diciamo più letterarie con il suo fare commedia di un tempo. Le macchiette, i personaggi caricaturali, i rapporti schematici sono proprio il punto forte del film; è conservatore, ma Allen lo sa, e gira proprio in maniera classica. Detto questo, cocncordo pienamente sul fatto che Allen sia da tempo ad un punto fermo, quando vai al cinema per lui sai già che vedrai un film molto buono e basta.