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mercoledì 28 dicembre 2011

Miglior disco del 2011

La copertina.
Devo dire la verità, se non avessi letto la (non) classifica di legno, non sarei qui, nel senso che forse non ne avrei avuto il coraggio. Di sbilanciarmi intendo. Perché i Distanti, io, è da quando li conosco che dico che sono il meglio, ma i miei amici mi guardano male. Poi siamo andati a vederli live e miei amici han detto che insomma, si, va beh. Il giorno dopo siamo andati a vedere gli offlaga ed erano tutti entusiasti. Ma ci può anche stare dico io, anche perché il pezzo grosso non c'era ancora.
Il pezzo grosso è Mamba nero.
Cinque pezzi per circa quindici minuti, di cui so dirvi poco perché non suono, non so suonare, non so come funziona la musica. Io premo play e godo o meno, ascolto i testi e tanti saluti. Quindi è un miglior disco molto soggettivo, ma si era capito. Ma era inevitabile.
Perché Mamba nero è il pezzo grosso? Perché il primo ep spaccava ma non si capiva una sega, era di un male registrato da volerci benone, quello si, ma non si capisce una sega, mentre Enciclopedia della vita quotidiana era un lavoro interessante, volutamente non piacevole da ascoltare, dove i testi variavano tra il complesso e il criptico. Insomma, qualcosa che richiede ascolti, impegno, parafrasi. Operazione non facile e nel frattempo quel tiro, quella goduria che nel primo ep sprizzava da tutte le parti, si eclissava in nome di suoni ossessivi, belli ma non incisivi.
Che, per quanto fosse un buon lavoro, mancasse ancora qualcosa i Distanti penso l'abbiano capito perché Mamba nero segna si un punto di equilibrio fra i due lavori, ma non per sottrazione, anzi. Lo si nota in primis dal dettaglio, puramente quantitativo, della durata dei pezzi, che sono anche più costruiti, più strutturati musicalmente, registrati bene (non che Enciclopedia... non lo fosse, ma non lo era il primo ep). La voce si sente bene ed è impastata con la musica come dio comanda; c'è di nuovo quel tiro, si diverso, cambiato, ma lo senti che sono i Distanti.
Di cosa parla Mamba Nero? Così su due piedi è difficile dirlo. Misantropia forse, uno scontro fra se stessi e la società in cui si vive, ma soprattutto di storie sofferte: piccole sconfitte quotidiane rivisitate con un po' di coraggio ed onestà. In più, rispetto ai lavori precedenti, io ci trovo un maggiore ottimismo perché le soluzioni s'intravedono.
Il primo pezzo, Tolleranza al dolore, richiama l'animale che da il titolo al lavoro. L'autore ne veste i panni o almeno ci prova: atterra la giraffa, uccide il re leone. Come dire: in questo album andiamo al sodo, vi squartiamo; io comando. In realtà quest'analisi è subito fugata dall'interpretazione del cantante: basta sentire quel coro che procede convinto con "e uccide il re leone!" mentre la voce, in ritardo e dimessa, ribadisce il concetto svuotandolo, anzi inseminandolo di un significato altro e opposto.
Bologna è un pezzo di quelli che io dubito di capire, sul serio. Posso azzardare delle ipotesi, potrei limitarmi a dire che è il loro primo pezzo in cui si sente la seconda voce e che questa arricchisce non poco l'arrangiamento, possiamo, visto quello che ho scritto poche righe sopra, notare il finale: ma non devi chiedere questo(questo cosa? un compromesso? del resto il protagonista del pezzo sembra essere un ragazzo in cerca di "un centro di gravità permanente")/ è come battere la lingua sul tamburo/ devi pretendere sempre/ operazioni irreversibili.
Astronomie...ecco se Bologna non si capiva, di questa cosa possiamo dire? Una coppia con dei problemi relazionali? Cosa centrano i cani? E l'anno bisestile? In ogni caso su di loro, su i Distanti e su di noi hanno vegliato le stelle ma(c)che(') non possono farci niente.
A fine giornata è invece l'inno dei misantropi: mentre tutti saltano e urlano cantando "siamo solo noi", inconsapevoli commilitoni d'una armata Brancaleone, l'insoddisfazione, la rabbia e una desolante sensazione d'impotenza prendono corpo nel protagonista. Devi fare le cose come se non fossero fatte per te/ come se tu fossi fatto per te
Infine Foglie di fico: un invito ad uscire allo scoperto, a gettare all'aria i nostri alibi (Basta parlare come fischiare, basta chiamare cani, ora mastica foglie di fico senza sputi, voglio vedere che ingoi quello che predichi). Ne esce (in/volontariamente?) un quadro generazionale, di gente spenta al timone, insicura, che predica bene e razzola male, con in mano un giornale o un settimanale: ma servono solo a darsi un tono, a nascondere l'incapacità d'essere protagonisti della propria vita. 
E oltre a tutto ciò utilizza la parola deuteragonista.  
In fin dei conti questo lavoro non fa altro che ribadire (e lo fa meglio) la politica dei Distanti: un'analisi lucida e spietata del proprio vivere quotidiano, una disamina senza sconti della meglio gioventù, perché lo strepitio dei distanti non è necessità di esprimersi, non è un semplice sfogo, bensì è l'urlo disperato dell'osservatore attento, cosciente e onesto. E tutto (questa, in fondo, è la cosa importante) è proposto tramite una scrittura, musicale e non, potente, brillante, feconda e piacevole. 
Rubo le parole a qualcuno, ma è piuttosto un condividerle: sono il miglior gruppo italiano, mamba nero è un capolavoro ed enrico, cantante e autore dei testi, è un eroe.
Le foto di gruppo, devono essere un disagio per chi suona.

lunedì 26 dicembre 2011

Miglior spot del 2011

Lungi da me pensare che la pubblicità possa avvicinarsi all'arte (poi, parliamone, cos'è l'arte?), ciò non toglie che sia un linguaggio interessante da molti punti di vista.
In un'epoca come quella che viviamo, vendere un'auto è diventata una questione filosofica. Ogni auto un modo diverso di intendere la vita, di affrontarla. Anche per questo motivo lo spot dell'Opel Insignia merita il nostro umile premio dato che parla di un'automobile punto e basta. Ecco punto e basta una sega, perché in realtà, in pochissimi secondi, lo spot ti cala in un'atmosfera, guida la tua immaginazione verso l'idea di fondo (compra questa cazzo di auto) facendo dunque il suo lavoro senza calcare la mano con inutili discorsi letti da Giancarlo Giannini o Luca Ward. Per fare ciò utilizza una messa in scena potente, fatta di immagini frammentarie, con uno stile da avanguardia sperimentale: un occhio in primo piano chiuso che poi si apre, pezzi di auto che sono pezzi di luce e di buio gettati in pasto all'occhio, vero, dello spettatore . Dicevo prima che si viene calati in una certa atmosfera, del tutto particolare.  Questo accade anche grazie all'interessante uso dell'audio con questa voce effettata, che non può che colpire lo spettatore, farlo rendere conto che quello che vede è diverso da tutto il resto.
La pubblicità, contraddicendo quanto ho scritto prima, s'ascrive all'arte visiva. Si tratta di cose delicate da trattare, dunque di materiali difficili da maneggiare e farlo fuori dal coro, tracciando un nuovo perimetro e riuscendovi in pieno, ecco che diventa cosa lodevole.

mercoledì 21 dicembre 2011

Lo sceneggiatore

Doveva consegnare un nuovo copione, corretto secondo le indicazioni, per lunedì. "Un bel weekend" s'era detto con sarcasmo, predisponendosi a una maratona di scrittura creativa. Non fu così: chiaramente si uscì a bere, ma quel venerdì sera regalò poca soddisfazione, ancor meno il sabato.
Il film che stava scrivendo parlava (doveva parlare) di un tale, ben piazzato, col coraggio da leone. Sfidava i poteri forti a suon di mitra, una cosa insolita per il cinema italiano. Non una rivisitazione delle pellicole alla poliziottesche, ma comunque una cagata senza ombra di dubbio.
Certo il nostro aveva altro di che pensare, perché faceva si il lavoro che voleva fare, ma non era come se l'aspettava, cosicché s'impegnava in altre cose: mentre, grosso modo, tutti e tutte ballavano più o meno a ritmo e più o meno spensierati, lui se ne stava al bancone della discoteca ordinando un cazzo di drink del cazzo. Dopo quindici minuti, con i baristi che non si accorgevano che fosse in fila, lì, solo ad aspettare come un cane, ricevette da un barman incamiciato, elegante ma volgare, un bicchiere pieno di ghiaccio e bagnato di lemon soda allungata e gin. Otto euro. Quando il ragazzo bucò il quadratino della drink card pensò "ladri" e se ne andò stizzito. Tornò in mezzo alla folla e ballò come peggio non poteva, immaginandosi ubriaco per non pensare a quale madornale figura di merda stesse facendo.
La domenica notte, o meglio il lunedì mattina, passò invece lentamente mentre se ne stava seduto tutto sudato di fronte allo schermo del mac. Ringraziando dio la cartuccia della stampante era carica e il giorno seguente si presentò al lavoro con il copione pronto e redatto come gli era stato richiesto.
Giunse quindi la noia: questi produttori (non il regista) dovevano valutare il lavoro, c'avrebbero impiegato dei giorni.  Sfruttò l'occasione per tornarsene alla città natale e dire a mamma che era tutto a posto e che le voleva un mondo di bene. Lo fece, nonostante la stessa continuasse a porgli ripetutamente le medesime domande fatte un attimo prima, come in preda ad una particolare forma di Alzheimer. Il padre, non ne parliamo.
Dopo il pranzo, insoddisfacente, se ne andò a stendersi sul letto, spoglio, della sua vecchia camera, spoglia. Fu lì che si convinse: ci vuole una svolta, un bel film che faccia ridere, ma riflettere, lo faccio leggere al produttore, gli piace e mi fa "perché non lo dirigi tu". E via.
Baci sulla guancia a tutti, compresa la sorella e il di lei marito, giunti al pomeriggio.
Presa l'autostrada per tornare a Roma, già all'altezza di Bologna aveva perso ogni entusiasmo e non si ricordava più dell'ebbrezza di quel progetto. Nella direzione contraria intanto, inseguendo il miraggio di una gran serata, viaggiava una piccola auto, una polo volkswagen, piena. All'interno si rideva o si protestava per la musica. Alla fine drum'n'bass  "e vaffanculo tutti sapete!". Uno dei ragazzi, seduto dietro, si sentì solo guardando fuori dal finestrino le gocce d'acqua spingersi verso il basso e verso destra.
Fu qualche autogrill più a sud che il nostro sceneggiatore, addentando una piadina di gomma, ebbe l'immagine che in pochi mesi si trasformò in sceneggiautra. Un gran bel film, si prospettava.
Nulla a che vedere con quanto, sul letto di cui prima, aveva ricordato, con una cosa a metà tra il sorriso e la bestemmia: lei che baciava lui, al rallentatore. "Ci costruisco su un film" aveva pensato all'epoca "Ci costruisco su un porcodio" aveva chiosato con realismo. Lei baciava lui, mentre se ne stava, come un coglione, come al solito, a ballare fingendo disinteresse, distanza, menefreghismo.
Non era stato facile fingere tutto il tempo: non solo di non essersi attaccato all'idea di volerla (agli altri), ma anche di averne bisogno (a se stesso), soprattutto di aver cercato di averne bisogno allorquando l'unico vero grande immenso desiderio era lontano centinaia e centinaia di chilometri di distanza, fisici e non solo.
Sorseggiando l'ultimo costoso drink aveva puntato un'altra, una bruttina simpatica che spasimava per lui. Aveva il preservativo dietro e lo usò: la scopò per un'ora e qualcosa in molte posizioni, procurandole all'incirca quattro orgasmi e godendo molto quando venne, non godendo un cazzo dopo essere venuto ché respirava forte per i cazzi suoi nella camera di lei, con i poster di lei e tutte le cose di lei di cui non gli fregava un cazzo: la nobile arte del farsi schifo.
"Allora questo film, parla di un vecchio parlamentare...": sfrecciando verso la capitale proseguì nel suo ragionamento, per le tre ore che lo separarono dal grande raccordo anulare.
"Vedi, io lo so già cosa devi dirmi. L'ho capito da come hai posto la questione anche se sono un tipo dubbioso, perché ci spero sempre alla fine, ma più che altro è che vaglio troppe ipotesi e non so sceglierne una più giusta delle altre. Si, si lo so come vanno queste cose: tu si, ma però; sarebbe bello, ma non è così; mi dispiace eccetera. Ecco va sempre esattamente così. Scusami se te lo faccio pesare, è che per una volta nella vita vorrei essere sorpreso. Essere felice da farmi schifo, da provare un qualche senso di colpa. Tu che mi sorprendi, che mi ami da impazzire. E vabbè, del resto non ci sono molti motivi per convincerti del contrario, del non far andare così le cose insomma...io stesso fatico a trovare dei motivi per convincerti del contrario di ciò che stai per dirmi! E anche se fosse, cazzo conterebbe? Dico, se le avessi le motivazioni? Non è un soppesare, l'amare. No? Lo sai bene e lo so bene. Perdonami il monologo retorico e tutto il resto, ma per un po', pur convincendomi giorno per giorno di compiere una cazzata, ho sognato un finale diverso. Titoli di coda!"
Egli mica se le ricordava queste parole che non disse mai, ricordava il dramma si, con l'aria distante e il sorriso poco sincero. Le aveva pensate la sera prima di andare in contro al fatale destino di un abbandono.Voleva un colpo di mano: far cambiare le cose. Ovviamente non andò così e tutto si perse un po' per volta.
Giunto a Roma, buttò giù delle idee per questo film. Per la svolta. Non le approfondì e i produttori chiamarono e dissero "Buono il copione adesso". Venne fuori un film di merda; accese la tivù e non ci pensò. Il giorno dopo scrisse e quello dopo ancora. Si buttò su un romanzo, poi su un'altra donna poi sul giornalismo et cetera, senza venirne a capo, proseguendo nella sua mediocrità. Questa gli dava calma, lo acquietava senza soddisfarlo del tutto, ma, come prima, non ci pensava, allenato com'era ad accontentarsi: scrivo un film sulla bellezza della vita, anche se la mia mi fa schifo; lo so: è colpa mia, potrei fare di meglio, ma non lo faccio (non lo so perché) e mando tutto in vacca, continuamente; arte è autocritica, allora mi autocritico; "...no, ma perché non è che c'è da capire..."; "per rendere umano un personaggio, la cosa più semplice è dargli un sogno"; speriamo che agli altri vada meglio; degli altri non me ne frega un cazzo; non so cosa fare.

*è una specie di numero 2 di questo qua http://savoirnotfaire.blogspot.com/2011/05/il-cinefilo_16.html

sabato 10 dicembre 2011

Repetita iuvant?



MIDNIGHT IN PARIS (**---)
Un film di Woody Allen. Con Owen Wilson, Marion Cotillard, Rachel McAdams, Kathy Bates, Adrien Brody. Commedia, durata 100 minuti. USA 2011.

E' recentemente uscito in Italia il nuovo film di Woody Allen. E' da un po' di tempo che, trattandosi del regista newyorchese, la critica cinematografica si spacca in due direzioni: da una parte l'approvazione a prescindere e dall'altra la stroncatura sistematica. Entrambe le posizioni muovono da ragionamenti in parte condivisibili e che in Midnight in Paris trovano conferme. Si, perché l'ultimo sforzo di Allen promette, ma non mantiene; riesce, ma delude. Com'è possibile? Il film in questione ripropone le consuete battute sulla psicologia, sulle pillole, sui conservatori e via dicendo, insomma un bell'assortimento di tutti i cliché che già si erano consolidati film dopo film; le tesi del film, sono anch'esse quelle di sempre, dal “basta che funzioni” al dovere dell'artista di non ammorbare il pubblico con i suoi problemi, ma di proporre delle soluzioni; pure il romanticismo, sempre apprezzato, è lo stesso già ammirato nei vecchi film, tant'è che Gil Penders ama Parigi esattamente come Isaac Davis ama Manhattan, per dirne una. Su due piedi diremmo “un film di Allen per alleniani”, ma non è così: come dimostra il sorprendente successo di pubblico e critica oltreoceano, c'è qualcosa in più (o in meno).
Difatti il gioco intellettuale, non è poi così alto: il protagonista, magicamente catapultato negli anni venti parigini, incontra personaggi noti e culturalmente eminenti, come Hemingway o Gertrude Stein o i coniugi Fitzgerald, ma queste celebrità sono portate alla macchietta come bene evidenzia la gag al bistrot con Gil Penders seduto al tavolo con Dalì, Buñuel e Man Ray: i quattro non danno vita a geniali discussioni, bensì ad un siparietto leggero e godibilissimo (forse l'apice comico del film, grazie anche all'abilità di Adrien Brody che veste brillantemente i panni di Salvardo Dalì). E nemmeno la parte ambientata nel duemiladieci è complessa, anzi: i rapporti fra i personaggi sono tanto schematici da regalare prevedibilità e risultare poco credibili (non si capisce, del resto, come mai Gil e la fidanzata Ines stiano insieme).

Evidentemente né l'una, né l'altra cosa interessavano ad Allen: il film non è né intellettualoide né un esercizio di stile da commediografo navigato. Assomiglia più ad una riflessione, l'ennesima, sull'arte e sulla vita. Oltre al pericolo, che Allen non riesce ad evitare, della ripetitività il vero (non) problema è che questi sembra aver trovato le risposte: non è “alla ricerca”, insomma se l'artista non deve deprimere, ma consolare ecco allora il lieto fine fin troppo semplicistico e scontato, mentre nella vita, nonostante l'insoddisfazione, alla fine una soluzione si trova, “basta che funzioni”, no?
Allora è forse vero che Allen non ha più nulla da dire, che, in fondo, negli ultimi anni il prolifico Woody è diventato troppo prolifico, finendo per risultare scotto, insipido, inutile? Tesi questa, supportata anche da una messa in scena piuttosto insignificante, trasparente quanto basta, per niente sperimentale. Però nemmeno in Midnight in Paris manca la “paura di morire”, altro grande tema fin dai tempi di Amore e Guerra: anche questo è un quasi-tormentone, qui reincarnato nelle movenze e nelle parole di Owen Wilson (che, con la sua popolarità presso il pubblico non tipicamente alleniano, ha giocato sicuramente un ruolo importante nel successo di pubblico). E' proprio questo il punto: gli anni passano e Allen pur invecchiando continua a sfornare film, come un “manovale hollywoodiano” ne fa uno dopo l'altro, anno dopo anno, andando evidentemente in contro a dei passi falsi, ma che non lo sono mai del tutto, proprio perché quel suo tocco, frutto di tutte quelle nevrosi esposte negli anni dribblandone la drammaticità con abilità comica tanto notevole da far vibrare
le corde dei sentimenti assieme all'istinto della risata, adorabile ed elegante, rimane (seppur indebolito dalla serenità che il tempo sembra aver portato in dote) come antidoto al piattume tipico dell'industria cinematografica. E' come se Allen fosse (quasi) guarito dalle sue nevrosi e ciò comporta, strano a dirsi, un abbassamento della posta in gioco (la soluzione diventa semplice, chiara, manifesta) finendo per livellare il film stesso e renderlo così scontato e banale per il pubblico più colto (o forse più snob?), apprezzabile per i fan di sempre e aperto al grande pubblico, quello meno esigente dal punto di vista intellettuale. Questo accade perché il film, oltre ai difetti che abbiamo esplicitato fino ad ora, annovera anche dei pregi, a partire da un cast che oscilla tra il discreto e l'eccellente: Wilson tiene banco nel difficile compito di interpretare sia Gil Penders sia Woody Allen, i comprimari sono all'altezza della situazione e, se di Brody abbiamo già detto, vogliamo parlare di Marion Cotillard? Prova sublime la sua, nelle vesti della femme fatale, all'altezza delle altre (se non addirittura superiore) muse di Allen, dalla Keaton alla Johansson, passando per Mia Farrow, mentre chiudiamo più di un occhio sull'inutile presenza della Bruni (relegata in pratica al cammeo, forse per le doti di recitazione della stessa? il dubbio è forte...). Le musiche (il solito jazz, soprattutto Cole Porter), la fotografia, tutto fila liscio ed anche la mise en scene, da questo punto di vista, risulta efficace: l'ora e quaranta scorre che è una meraviglia.

La questione, quella vera, non è se Allen fa o non fa più film, come lo accusano i maggiori detrattori, ma se questo tipo di cinema non finisca per essere conservatore ben aldilà delle intenzioni dello stesso autore, che ha raggiunto un pubblico più vasto, ma pagando il prezzo della “consolazione”. Forse tanto valeva non alzare il tiro, concedendosi ad un divertissement alla Scoop, ma il problema rimarrebbe; è la nuova sfida per l'ultimo Allen: produrre ancora un cinema propositivo e vitale, non conservatore e al tempo stesso nuovo, poiché il repetita iuvant, nel cinema d'autore, lo dimostra Midnight in Paris, funziona sino ad un certo punto.




Legenda
(-----) : schifezza immonda
(*----): inutile
(**---): si può vedere
(***--): da vedere
(****-): assolutamente da vedere
(*****): capolavoro

domenica 27 novembre 2011

La verità ti fa male lo so/1

Credo di provare non più di quattro sentimenti: invidia, gelosia, accidia ed ansia (sempre che siano sentimenti). Ma, a dirla tutta, volevo solo dire che bisogna stare attenti ai giapponesi: un popolo che mette l'effetto pixel sopra peni e vagine è un popolo che non la racconta giusta.

mercoledì 16 novembre 2011

Black Mamba!

Porcoggggiuda è uscito il disco dei distanti.
Un'ep lungo quasi quanto lo scorso lp (cinque canzoni, quindici minuti). In parte sembrano un'altra band. La voce (che qui raggiunge nuove vette, altissime, che comunque negli altri dischi s'intuiva essere tanta roba) è registrata e missata meglio di Enciclopedia...
(del primo demo non stiamo neanche a parlarne).
Solo è un peccato che non ci sia uno scritto d'introduzione (come invece per i due precedenti lavori). Tanto non si capisce 'na mazza direte... Mah, vabbè, io una mia idea me la faccio.
Cazzo è un discone. Porca pupazza.

ps:poi un giorno un bel postone su tutta la discografia lo si fa

domenica 13 novembre 2011

Di nuovo


UNA SEPARAZIONE (****-)
Un film di Ashgar Farhadi. Con Sareh Bayat, Sarina Farhadi, Peyman Moadi, Babak Karimi. Drammatico, durata 123 min. Iran 2011.

Una fotocopiatrice scansiona dei documenti d'identità mentre scorrono i titoli di testa. Così si apre Una separazione, film iraniano Orso d'oro a Berlino, ed è quasi una dichiarazione d'intenti: mostrare l'essere umano. Asghar Farhadi dribbla abilmente le censure del regime iraniano mettendo in scena un dramma famigliare che oscilla fra tinte thriller ed elementi tipicamente da commedia, dove l'oppressione del regime non è additata, ma fa semplicemente da sfondo alla vicenda: Nader e Simin, una coppia borghese con una figlia, s'apprestano al divorzio; la moglie se ne va di casa lasciando il marito da solo a gestire la figlia e il padre anziano, malato di Alzheimer; ad aiutarlo è una badante, povera e fortemente religiosa, che, venendo meno alle sue mansioni, scatenerà una violenta reazione da parte di Nader. La badante lo accuserà poi di aver causato l'aborto del figlio che portava in grembo.
E' questo l'evento drammatico che causa l'inasprirsi della vicenda riportando l'azione là dov'era iniziata: in un'aula di tribunale.
La molteplicità dei punti di vista e l'avvenimento fuori campo degli eventi fondamentali mettono fuorigioco lo spettatore: nessun personaggio ha l'autorità per farsi portatore di verità, siamo costretti a non prendere una posizione: siamo giudici incapaci di deliberare, non c'è verità, non c'è corano né legge.
Il film, è chiaro, non è solo questo, infatti, nel mezzo, si consumano altri drammi, dalla malattia del padre ai problemi economici della badante, ma su tutti è quello della giovane figlia, chiamata a decidere fra un padre che la carica delle responsabilità che non è in grado di assumersi e una madre assente in una sorta di Kramer contro Kramer iraniano.
Ne consegue una messa in scena fatta di nervosa camera a mano con primi piani stretti, quasi soffocanti; è poi un affastellarsi di decadrage fra porte, scale, finestre e vetri sporchi: distanze fra i personaggi, ma anche anime frammentate, ferite, imprigionate.
Una pluralità di temi quella toccata da Farhadi che rendeva il film terreno pericoloso, ma il regista iraniano non si confonde, non si perde inseguendo vani manifesti femministi (per quanto i personaggi femminili restino, nel complesso, positivi rispetto alle loro controparti maschili) o sacrificandosi in un pamphlet politico. Certo vi si può leggere l'allegoria politica e l'antipatia per le istituzioni (la giustizia, il corano, ma anche la famiglia, finendo per accomunare il film ad una lontana pellicola di Bellocchio, I pugni in tasca), ma sarebbe sciocco liquidare Una separazione come un film sull'Iran e il suo regime, è molto di più: è un film sul rapporto tra verità e realtà, è un film sull'essere umano. Si, un film su di noi.

IO SONO LI (***--)
Di Anrea Segre. Con Zhao Tao, Rade Sherbedgia, Marco Paolini, Roberto Citran, Giuseppe Battiston. Drammatico, durata 100min. Italia, Francia 2011.

Shun Li è un'emigrata cinese mandata a lavorare in un bar a Chioggia per conto dei suoi creditori. Nell'attesa di veder arrivare in Italia suo figlio, Li conosce Bepi, anziano pescatore croato. Fra i due nasce subito un'amicizia (o forse qualcosa di più) mal vista in paese e dai datori di lavoro di Li. E' un melodramma quasi fassbinderiano per trama (siamo dalle parti de La paura mangia l'anima), un mezzo documentario per messa in scena: Segre, coadiuvato da un'eccellente cast formato da attori professionisti (Rade Sherbedgia, Marco Paolini, Giuseppe Battiston) e non, realizza un ottimo esordio, mutuando appunto dalla pregressa esperienza documentarista un'attenzione al paesaggio e ai volti non indifferente, dirigendo con piglio sicuro un film pienamente riuscito e attuale. Aria fresca dalle nostre parti.



Legenda
(-----) : schifezza immonda
(*----): inutile
(**---): si può vedere
(***--): da vedere
(****-): assolutamente da vedere
(*****): capolavoro

giovedì 10 novembre 2011

Ancora, e ancora, e ancora...

La Zona (***--)
Di Rodrigo Plà (Messico, 2007)
La "zona" è un quartiere residenziale per benestanti di Città del Messico, separato dalle vicine favelas da un muro che, assieme a guardie private e numerose telecamere, protegge i suoi abitanti dall'esterno. La breccia nel muro che dà avvio alla storia è allegorica: i ricchi e i poveri, guardie e ladri, padri e figli, integrità e corruzione, ma non buoni e cattivi: solo ferite. Infine la violenza. Che squarcia l'animo dello spettatore così come il bianco (desaturazione a gogò) squarcia lo schermo. Nel mezzo l'innocenza del sedicenne Alejandro, ragazzo privilegiato, che si scontra e s'incontra con il suo doppio, Miguel, povero e criminale. Per Plà nessuno è libero: i poveri sono costretti a rubare mentre i ricchi si chiudono letteralmente in una prigione. Il confronto, possibile, viene negato dall'ingiustizia (sociale, economica, giuridica: totale). Uno dei film politici migliori degli ultimi anni con una scena, quella del linciaggio, assolutamente indimenticabile.


Legenda
(-----) : schifezza immonda
(*----): inutile
(**---): si può vedere
(***--): da vedere
(****-): assolutamente da vedere
(*****): capolavoro

venerdì 4 novembre 2011

La peggiore recensione della mia vita

La peggior settimana della mia vita (*----)
Di Alessandro Genovesi (ITA 2011)

Il primo film di Alessandro Genovesi, già sceneggiatore per Salvatores (Happy family, 2010), è tratto dalla sit-com britannica The Worst Week of My Life, da cui prende anche il titolo . Se nel lavoro precedente vi si poteva riscontrare un citazionismo, anche a livello registico, fin troppo ostentato verso un immaginario tipicamente à la Wes Anderson con evidenti rimandi a I Tenembaum, questa volta incorriamo in qualcosa di sospeso tra il remake e il plagio di Ti presento i miei. Infatti il film parla di Paolo, quarantenne imbranato e bugiardo cronico, e del suo matrimonio incombente con Margherita, la cui famiglia gli è ostile. Il film si sviluppa lungo lo schema tipico della commedia romantica, tra i classici tira e molla e il tutto che sembra inevitabilmente precipitare in vista del finale. Non mancano nemmeno le caratteristiche più moderne di diretta derivazione hollywoodiana come la presenza del combina-guai/cattivo-consigliere, amico di lui, impersonato stavolta dal napoletanissimo Siani che, dopo Benvenuti al Sud, si riconferma affidabilissimo detonatore di comicità, ma sia ben chiaro: Troisi era di un altro livello, semmai siamo dalle parti del nuovo Lello Arena. Allo stesso modo non siamo dalle parti della commedia all'italiana, genere a sé stante capace, tra una risata e qualche lacrimuccia, di riflettere sul contemporaneo. Questo a Genovesi e a De Luigi (qui anche nella veste di sceneggiatore) non interessa, si punta dritto alla risata e il bersaglio in buona parte si centra: qualche buona gag alternata ad altre, scontate o del tutto scotte, che si salvano solo grazie all'abilità del cast maschile, del quale segnaliamo anche Antonio Catania, nei panni del futuro suocero stile De Niro. Viceversa, quando non è il cattivo gusto a farlo, è parte del cast femminile a impedire che la comicità esploda: sottotono Monica Guerritore, madre di Margherita, ancor peggio la tanto pettoruta quanto incapace Chiara Fancini, svitata ammiratrice di Paolo mentre la Capotondi, (non) protagonista femminile nei panni appunto di Margherita, si limita al compitino richiestole
La commedia, è bene ripeterlo, funziona: si ride, anche di gusto, e non ci sarebbe in fondo di che lamentarsi, specie guardando al derelitto panorama del cinema nostrano. Il problema nasce raffrontandola col precedente lavoro: un anno fa si poteva vedere in Genovesi un'ancora di salvezza per la commedia italica: elementi originali e piuttosto innovativi per le acque ferme del nostro cinema, una capacità di gestire più registri con disinvoltura, una discreta riuscita sia nell'affrontare con leggerezza temi delicati, sia nel porre uno sguardo affatto superficiale sul contemporaneo senza scadere in banalità o scontate affermazioni partigiane: tutto ciò lo poneva ben al di sopra di Brizzi e di altri registi e sceneggiatori che negli ultima anni hanno avuto a che fare con la commedia qui in Italia. Oggi assistiamo ad un appiattimento inaspettato e deludente, fin troppo vicino alle gag televisive di De Luigi. Si tratta dunque di un film che può dirsi, nel suo piccolo, compiuto, ma che rappresenta, si spera, un passo falso nella carriera di un giovane autore che può e deve dare di più al nostro cinema.


Legenda
(-----) : schifezza immonda
(*----): inutile
(**---): si può vedere
(***--): da vedere
(****-): assolutamente da vedere
(*****): capolavoro

venerdì 21 ottobre 2011

Che poi sta storia della critica...

Giudicare è poco salutare solitamente, bene sarebbe mettersi lo zaino in spalla e andare. Invece tu stai qui a fare le recensioni. Eh ma è per scuola, ma è per divertimento. Ma vaffanculo e trovati un lavoro.
Confucio

Jane Eyre (**---)
Di Cary Fukunaga (GB, 2011)
Ritorno al cinema per Jane Eyre: quindici anni dopo il lungometraggio di Franco Zeffirelli, è Cary Fukunaga a riportare sul grande schermo l'eroina (in parte autobiografica) di Charlotte Bronte, mentre alla Gainsbourg succede l'ottima Mia Wasikowska, lanciatissima attrice australiana, già Alice per Tim Burton lo scorso anno e in questi giorni al cinema anche con l'ultimo Van Sant. Al suo fianco un altro attore ormai prossimo alla consacrazione, Michael Fassbender, anche lui al cinema in questi giorni con un altro lungometraggio (é Jung in A dangerous method di David Cronenberg), nei panni di Rochester e l'impareggiabile Judi Dench nei panni di Mrs. Fairfax.
Ma procediamo con ordine: rinfrescare una storia ormai nota non è mai cosa semplice e Moira Buffini, autrice della sceneggiatura, ci riesce solo in parte. L'incipit in medias res e i susseguenti flashback gettano uno squarcio di luce sulla vita di una ragazza dispersasi a rischio della vita nella brughiera inglese. E' questa la parte migliore del film, sorretta da una scrittura brillante che sacrifica alcuni personaggi per lasciare spazio al nodo centrale e successivo del film: la storia d'amore fra Jane Eyre e Rochester. Si ritornerà così al punto di partenza da cui il film procederà sbrigativamente in vista del finale.
L'inizio, l'abbiamo già detto, è valido: dialoghi essenziali e inquadrature puntuali, un continuo passaggio tra presente e passato ben architettato, che permette di liquidare la prima parte del romanzo, infanzia e formazione, in fretta. Forse troppa, è vero, ma, se nel cinema bisogna saper fare di necessità virtù, la semplificazione o addirittura la rimozione di alcuni personaggi, pur importanti nell'economia del romanzo, può essere giustificata. E allora qual è questa necessità? Ebbene si trattava di porre al centro, con ancora maggior forza, la protagonista, che occupa qui tutto lo spazio e tutto il tempo, fagocitando tutti gli altri personaggi e seducendo Rochester. Una serie di jump-cut en plein air molto luminosi restituiscono le emozioni di Jane e fanno contrasto con gli interni, dove i (pochi) personaggi si muovono come ombre cinesi (ottima la fotografia di Adriano Goldman). Purtroppo però è in questa parte centrale che il film perde un po', nonostante alcuni buoni momenti come l'innamoramento, reso con poche inquadrature ed una grazia semplice e rara, la storia prosegue senza più alcun pathos: la suspence emotiva e i colpi di scena sono mal gestiti e il tutto scorre in modo scontato. Gli echi horror precedenti scompaiono e l'indagine sulla repressione delle pulsioni e dei propri fantasmi sotto il peso della fede, tema che il film sembrava intenzionato a perseguire per alcuni tratti, resta ferma poco oltre la superficie facendo di Jane non una retta donna vittoriana, ma piuttosto una suffragetta ante-litteram.
Restano le ultime annotazioni: discreto Fassbender che, come buona parte del restante cast, offre una prova più che sufficiente seppur in un ruolo inadatto (chi ha fatto il casting? da licenziamento!); ottimi i costumi e le acconciature; piuttosto incolori invece gli archi del premio oscar Dario Marianelli.
La sufficienza c'è tutta, ma, se questo film sarà ricordato (e permetteteci di dubitarne), lo dovrà esclusivamente alla bravura della Wasikowska per la quale la candidatura all'oscar è tutt'altro che un miraggio.

giovedì 13 ottobre 2011

Soffocando dolcemente (vers. Beta)

 Il breve racconto di oggi, che nemmeno è un racconto (ma non divaghiamo troppo...), farà presto parte di una raccolta che uscirà per Einaudi sotto il titolo di I mancati risparmi, o di come ci rese infelici perdere tempo che di fatto sarà la mia prima raccolta di racconti brevi nonché la mia prima raccolta di racconti brevi pubblicata per Einaudi inesistente, ma spacciata per vera per una frazione di secondo. Meglio così.


Iniziava ad infervorarsi tanto la discussione lo appassionava; il vino era scorso e prese a parlare, velocemente, mangiandosi lettere, mangiandosi riflessione e calma. Lui stava dinanzi e lo seguiva con attenzione estrema, o così pareva, mentre pronunciava parole giovani e vive più che mai. "Io capisco bene che, se decido, ho un vantaggio enorme: l'azione. So bene che è inevitabile agire, perché anche in-agire, se ci pensi, è agire. Ma appunto: tanto vale agire direttamente. Però fermiamoci un attimo: la volontà nostra, o almeno la mia, è di agire per il meglio, in base a quello che l'esperienza suggerisce. Vedi a decidere...si cade spesso in errore, e allora capisci bene meglio non decidere, cioè non decidere troppo in fretta. Stare a osservare, di questo ti parlo: osservazione...cioè in questi giorni così m'è venuto da pensare. In fondo è tutta una questione di politica, no? Siamo animali politici e allora politichiamo! E cerchiamo di farlo bene no? E' inevitabile che si facciano cagate, anche colossali magari, ma, se almeno vedi...io avessi insomma lo spirito giusto...spirito giusto che credo sia questo che ho individuato e che ti ho appena detto...Insomma, alla fine questa va bene per quello che stiamo facendo no? Cioè non chiediamo a noi né a nessun altro di andare oltre ciò che osservano, capisci? Alla fine saranno solo pezzettini di vita di ciascuno ché, alla fine, è inevitabile no? che ognuno abbia un suo modo di vedere il mondo, l'universo, la vita eccetera. Cioè noi lo poniamo di fronte al lettore e scaturisce un confronto, giusto? E sarà anche la più miserabile cazzata, però ecco se noi diamo la linea guida, voglio dire, questa linea guida, di osservare senza andare poi oltre quello che uno sa e può sapere, fa presto uno a capire che se ha detto una cazzata, ha detto una cazzata. Intendi? E questo è certo meglio che fare un passo più lungo della gamba, che anche se l'intenzione è lodevole si finisce per far di meglio cercando di far di meno...no?" Fermò il suo flusso, veloce e senza soluzione di continuità prima di allora e fu come uno shock: il suo compare, dopo alcuni secondi, si rese conto del silenzio e tornò come si torna dal regno dei morti. "Però ecco" esordì sbiascicando "però ecco" ripeté. Doveva esserci dietro della droga pensò, ma non lo interruppe e con gli occhi ben sull'attenti mantenne lo sguardo su di lui. Proseguì "Però ecco, tu sei tuttora ancorato a quell'idea che una..."-s'interruppe alla ricerca del vocabolo, i suoi occhi fissavano già da un pezzo il soffitto o forse non lo fissavano affatto: erano solo persi verso l'alto sfocando persino il bianco del muro-"...sei tuttora ancorato a quell'idea che una...proposizione!...si, che una proposizione sia vera o falsa. Bello mio" tirò su col naso il muco accumulatosi "non è così: una proposizione è vera e falsa. E' perfettamente così. Si. Tutto ciò che è razionale è perfettamente irrazionale e tutto ciò che è irrazionale è razionale. Perché, ed è qui che volevo arrivare, un giorno anche tu, anche tu che mi dici che bisogna ingoiare cazzi amari. Succhiarli, succhiare cazzi" giunto a questa affermazione, che riteneva del tutto falsa(ma, è chiaro, forse era vera), provò ad interromperlo, ma una strana forza lo bloccò e l'altro poté così continuare "succhiare cazzi un cazzo! Capezzoli, capezzoli turgidi, grandi capezzoli turgidi!" urlò ai quattro venti "Pure tu, un giorno, sdraiato sul tuo comodo lettino, riceverai in bocca un capezzolo turgido. Pensa, il capezzolo turgido di una gigantesca tetta, e sarà lei a ficcartelo in bocca, a soffocarti. Tu sdraiato sotto questa donna eccitata, febbrilmente eccitata dall'idea di scoparti, talmente eccitata dall'idea di scopare proprio te che ti ficcherà in bocca il suo turgido, dolce, meraviglioso capezzolo. Ecco, ecco dove volevo arrivare. Lì tutte le domande si perderanno, si afflosceranno come vecchi seni avvizziti e tutto ritornerà, l'estasi porterà la stasi, quiete assoluta, ferma tranquillità, pace dei sensi. Un attimo di celestiale perfezione, incontro divino, punto a capo di una vita, anzi del senso della vita."

venerdì 30 settembre 2011

Salto carpiato # 1 - Da Vigo a Fincher

Per carità, è un paragone a sproposito. Si sa, lo diamo per assodato; si cerca solo di far emergere somiglianza, anche perché in fondo una somiglianza è anche sottolineatura della differenza. Un gesto che vale a poco, siamo d'accordo, ma io questo ho visto, questo ho paragonato, questa vicinanza ho sentito. Qualcosa, seppur qualcosa d'inutile, vorrà pur dire.

giovedì 22 settembre 2011

La juve è in testa!

Io ancora non ho capito che è sto spread. C'hanno declassati sia noi che le banche nostre. Ma che vuol dire? Ma cosa significa? Che è??Morimo 'mazzati??
Sotto casa è pieno di banchetti e stand: stasera a Gorizia parte Gusti di frontiera e giù birra a fiumi. Il bar dei cinesi per l'occasione ha abbassato le lasko da mezzo a 2 euro. Nessuno le fa ad un prezzo così basso, a parte il supermercato.
Ecco, non ho nemmeno capito se i cinesi c'han comprato il debito.
E Gheddafi? è ancora vivo?(Forza Foggia!)
Poi è iniziato il campionato, alla grande direi: l'inter fa ridere, la juve vince o quasi, il napoli ieri ha perso, il milan fa ridere quasi come l'inter. Insomma, meglio di così non può proprio andare.
Una cosa che invece mi è chiara è che Berlusconi è un gran puttaniere. Ne aveva undici in fila e se ne è fatte solo 8, di più non riusciva. Il retropensiero (ma nemmeno troppo retro) di molti è: cazzo, anch'io vorrei. Pensa te che questo qui non si è scopato Belen perché all'epoca stava con Borriello, altrimenti nema problema.
Allora, caspita, ieri notte ho visto, manco a farlo a posta, Il declino dell'Impero Americano (di cui consiglio più caldamente il seguito, Le invasioni barbariche). Che questo edonismo, questa dilagante ricerca della felicità non siano forse i segni della fine dell'occidente? Che lo sciagurato destino del marxismo-leninismo abbia prodotto l'effetto contrario, ossia: non c'è una società migliore di questa-questa società non ci aggrada-scopi chi può ? I modelli di vita ideali riescono a seguirli in pochi, non sono alla portata di tutti, mia in primis, per pigrizia, per viltà o anche perché, in fondo, poco convincenti?(insomma, il progresso e la comodità devono essere del tutto scartati per vivere bene? ne siamo sicuri?).
Tutto sommato mamma e papà pagano l'università, c'han tolto la leva militare, le birrette al godina costano un cazzo. Io non mi posso proprio lamentare.
Il punto infatti è un altro, con tutto il rischio di generalizzare: fottesega a nessuno delle sorti dell'impero. Le paure ci mandano avanti un altro po', ipertrofizzati nel nostro benessere, con la juve in testa al campionato grazie a dio, la testa protesa ad un altro cortometraggio, con dieci euro in cambio di un long island gratis(la gente ha una faccia aggressiva/è qui per scopare/non può fare brutta figura).
Vedo distanti alcuni operai montare l'insegna luminosa di un centro commerciale: Vabbè c'è scritto.

sabato 17 settembre 2011

Trieste, o di un futuro cortometraggio




Accoglimi tra le tue braccia Trieste, io più in là non voglio andare. Restare in riva al mare, voltarmi e vedere le colline che salgono, nulla più. E, se devo, prendere un treno, tornare a casa sognando un'altra fuga, andare più distante e poi scoprire che è come restare chiusi in casa.
Bevendo e mangiando, mi imbambolo: c'è un campo di granturco, mi ci addentro, mi ci perdo.
Sono qui e qui voglio stare? Qualcosa va, qualcosa non va mi dirò, eppure sento: c'è una conclusione da fare, insomma qualcosa dovrà pur accadermi nella vita.
Mi spegni la sveglia, mentre fisso le finestre e non mi alzo; mi lavo la faccia al pomeriggio tardi e mi chiedi se qualcosa non va, no niente.
Portami fuori a bere, se puoi, più forte che puoi.

giovedì 15 settembre 2011

Tutti quei film che abbiamo detto adesso ce li vediamo - Elephant


Dopo Paranoid Park mi sembrava giusto proseguire, in ordine cronologico inverso, con Elephant(G.VanSant, 2003) che fu addirittura doppiamente premiato a Cannes, miglior film e miglior regia.
Questo poco c'interessa: le differenze principali col film della scorsa volta sono nel numero dei personaggi con quella che è una vera e propria scomposizione per punti di vista e negli "inserti" musicali. Poi c'è da dire che i film di Van Sant hanno il pregio, io ritengo così, della brevità. Qui a maggior ragione perché dopo 50 minuti di lunghissimi piani sequenza, carrellate a seguire, carrellate a precedere e corridoi interminabili davvero vuoi un'unica cosa: sta cazzo di sparatoria.
Siamo negli stati uniti, un liceo, tipo quello di Coloumbine(c'avete presente? Bowling a Coloumbine? Due deficienti schizzati che si mettono ad ammazzare nella loro scuola 13 persone?) e Van Sant segue la giornata di diversi studenti tipo. Il rischio, chiaramente, è lo stereotipo. Il buon Gus sa di non poterci far nulla, ma ne è consapevole: dà ampia libertà agli attori(che alla fine mi pare risultino più che discreti, Van Sant li sa gestire davvero bene infatti, immaginatevi un film del genere in Italia: crollerebbe dopo due minuti sotto i limiti recitativi dei protagonisti), svela la limitatezza della caratterizzazione dei personaggi in una scena precisa, ovvero quando, seguendo le tre bulimiche che camminano spedite verso il bagno, si sofferma sulla donna stilizzata che contraddistingue il bagno femminile da quello maschile, infine inserisce un'intera sequenza improvvisata: dei ragazzi sono in cerchio e discutono ad un incontro sulle differenze sociali o sessuali (non mi ricordo più!) se è possibile distinguere un gay da come cammina.
Cazzo, Van Sant che è gay te lo deve sempre far presente: a parte la scena sopra citata, i due killer prima di andare a compiere la loro carneficina fanno la doccia insieme, si baciano. Non so, mi è sembrata un po' forzata. Come le nuvole, come questo contrasto fra interni e natura.
Insomma un bel mah a questo Elephant lo diamo eccome, pur restando un film carino con delle ottime idee e con alcune scene particolarmente riuscite, diciamo che non convince fino in fondo.
Poi se ce lo fossimo visti assieme comunque era meglio.

sabato 10 settembre 2011

Abbastanza bene


In questi giorni, quando il cielo è limpido, mi sveglio al mattino e vedo il muro esterno alla finestra che è di un giallo tipo quello di questo blog e subito affianco l'azzurro del cielo. E' un bel svegliarsi, ma me ne rimango a letto il più possibile lo stesso.
In questi giorni ascolto con piacere solo un piccolo album uscito questo luglio, si chiama Bene ed è degli Aldrin. Son dei ragazzi italiani che non avevo mai sentito nominare e di cui non avevo ascoltato nulla prima d'ora. Poco male visto che ora sto recuperando alla grande riascoltando più e più volte questo lavoro.
Si tratta di quattro tracce, ma almeno 5 canzoni: Der Oldrin infatti è composto da due pezzi tenuti attaccati, due crescendi diversi e completamente strumentali; segue Vaskij Rosso che non ho capito se è una ripresa di vari riff di vasco o cose simili riarrangiate meglio, fatto sta che sul finire una vocina dice "the sho-shots o-over the-them" e mi fa ridere; poi in Molto bene c'è una citazione da Stephen Hawking e una voce sintetica dice appunto "molto bene" e la musica sembra mettersi a raffigurare esplosioni stellari nell'universo; un universo a cui non interessa come sei o come stai e per questo gli aldrin ci dicono forza e coraggio, solo chi ha paura può essere sottomesso E' il testo di La drogue che si scioglie poi nel finale in un inaspettato coretto che sembrano quasi i crash of rhinos, solo più gentili e più italiani. Embrace the earth fell it breathing, Embrace the men watch them sinking. Ed è un po' tutto qui, in questa contraddizione, fra l'abbraccio e il guardare affogare: grandi cavalcate e frenate, chitarre elettriche e suoni sintetici, batteria acustica e batteria elettronica e via dicendo. Ma io non so fare mica le recensioni musicali, quindi bon: Bene mi è piaciuto molto, mi piace ancora e lo ascolto.

sabato 3 settembre 2011

Futurismo

Bleaaaah raggg vrrr pfscchhh bloooooorghpsgmsnhp.
-Ahn, letteratura futurista!
-No, sto cagnando

lunedì 29 agosto 2011

Tutti quei film che abbiamo detto adesso ce li vediamo - Paranoid Park




Davvero, pare riesca solo a parlare di cinema ultimamente. E male. Parlare di cinema che poi è sempre un'approssimazione per difetto.
Parliamo di Paranoid Park(Gus van Sant, 2007). Film particolare, sembra procedere per spezzoni narrativi disposti a caso e abbozzi di videoclip. I cahiers du cinema han detto che era il miglior film del 2007, più calmi gli spietati che lo mettevano 12°. Fotte obbiettivamente sega delle classifiche, e non so perché ne ho parlato, penso per la sorpresa di notarlo al primo posto per una rivista così prestigiosa(la più prestigiosa!).
Chissà, magari ai francesi piglia bene l'adolescenza e lo skateboard, o anche semplicemente l'adolescenza. Per la quale nessuno è mai pronto, un po' come per paranoid park.
Meglio spiegare: paranoid park è tipo la pool delle fornaci, ma a Portland, quindi molto molto più grande e molto molto più fica. Il ragazzino protagonista sta preso un po' male dalla vita, ma forse è tutto a posto. E' solo una fase, gli passerà credo. Beh, si tratta di quella fase di passaggio che chiamiamo, appunto, adolescenza. E' l'innocenza ad andarsene, il peccato t'investe e ci sono colpe da espiare, magari da esorcizzare scrivendo su fogli sparsi la propria drammaticamente(e splatteramente) comica storia di un sabato sera qualunque. Aldilà degli eventi sfortunati e particolari, del cadere (forse) in fallo della memoria, della rielaborazione soggettiva degli eventi e tutte ste cose realitivistiche date da le stesse scene che si ripetono, simili e non uguali, mi vien più che altro da dire che siamo stati tutti un po' come Alex, a perdere la testa in chissà quali pensieri durante una noiosa lezione di scienze mentre qualcosa sembra sempre mancare. Poi ci sono i super8 fatti seguendo gli skater da dietro con bella musica sotto. Basta poco per farci stare meglio.

sabato 13 agosto 2011

Bonaccia

"Come va?" chiese appoggiando la mano sulla spalla del fraterno amico, il quale, chino sulla scrivania, si affrettò a nascondere il contenuto dei suoi fogli.
Furono cinque minuti di convenevoli, poi sbroccò: la verità, la verità è che sono in difficoltà. Non so se è una questione di accenti sulla "a". Sono confuso: nel senso che mi sento perso, per davvero. Ho sempre disprezzato questo modo di dire; ora lo trovò così chiaro e semplice e te lo dico: completamente persa è la mia bussola. Sono perso. I tempi morti, che forse un po li ho cercati, mi hanno travolto. Mi hanno portato, fra le altre cose, qui a rovistare sulla mia calligrafia, su questo inchiostro stagionato. Nulla mi aggrada. Nulla.
Anche queste parole, che ti sto dicendo adesso, so bene non andare bene. Essere limitate dalla mia attule deficienza. Sono come handicappato, debilitato, monco. Arteriosclerotico delle emozioni, delle sensazioni, delle idee, degli spunti, del coraggio, della forza.
Completamente sterilizzato, annichilito, sventrato, spappolato.
Non so, forse potevo stare calmo, non spaventarti, e dirti: sono un attimo scoglionato. Ma forse è da troppo che sono scoglionato. Forse è qualcosa di più serio.
Terminò così il suo monologo. Giacomo abbassò lo sguardo, si portò le dita al mento in un gesto eloquente di riflessione. Aprì la bocca, ma si ammutolì.
Poi un urlo "BONACCIA".

venerdì 22 luglio 2011

Tutti quei film che abbiamo detto adesso ce li vediamo - Palombella rossa

Questa volta è un po' diverso. Nel senso che c'era da dare quest'esame di storia del cinema con annessa tesina su un film. L'esame è andato bene, la tesina anche e siccome teneva dentro un facoltativo commento critico che il prof ha definito "credibile" io ve lo posto. Quindi ecco qua...ovviamente sarebbe stato bello vederselo insieme. Detta così sembra poco credibile, ma è la verità.

Palombella rossa è un film complesso, arzigogolato e non può essere altrimenti perché è il film de “i troppi pensieri fanno bene”, dove la parola sbagliata e, più radicalmente, la parola scritta corrompono i concetti anziché renderli chiari e patrimonio di tutti.
Un film che tenta di catturare il presente: è il 1989 e qualche mese dopo la sua scrittura cadrà il muro di Berlino, ma è già momento di verifica per chi si sente e si crede “comunista”. Credere non è una parola a caso, perché Palombella rossa è un film anche sulla fede, proprio così: a spiegarcelo è il giovane ragazzo cattolico, uno dei personaggi più buffi e comici fra quelli creati da Moretti in questo suo film, in uno scambio di battute indimenticabile: fra le altre cose, Simone dice a Michele Apicella “Tu credi nel tuo lavoro, tu sei credente”.
Quindi un film sulla fede e sulla relativa crisi di fede, dalla quale per uscirne o, almeno, tentare di uscirne è necessario un percorso, il quale si articola nella memoria e nell'allegoria della partita di pallanuoto. In soli ottantanove minuti, che sembrano scorrere lentissimi, Palombella rossa cerca allora di districarsi fra più materiali: dal flashback con tanto di super8, al film sportivo, agli interventi affidati al Dottor Zivago, vera e propria allusione ad uno spirito romantico che oramai sembra perduto. Nostalgia e malinconia pervadono il film, soprattutto nelle toccanti scene al termine della partita dove il protagonista ricorda la madre, morta come lo è il sogno del socialismo reale, e il dolly sulle madri che asciugano i capelli ai figli. In questi fotogrammi la sintesi di tutto il film: il contrasto fra primi piani e scene di massa come rappresentazione della distanza fra l'utopia di una società di massa più giusta ed equa e le spinte individualistiche, poste da Moretti come proprie della natura umana in un altro flashback: Michele bambino entra nel terrazzo del vicino per rubare il dolce tanto agognato.
Ma il film tocca tanti altri temi: dal linguaggio al giornalismo(e dunque il linguaggio del giornalismo) fino al mantenimento della memoria storica (la distanza fra Michele e il fascista, l'accettazione dei “facili schematismi”) passando per una critica, che è satira feroce, dei dirigenti del P.C.I.
Dicevamo del linguaggio e della parola scritta, che è corruttrice: per Moretti è quindi l'arte che salva? Sembra così: è il Dottor Zivago a commuovere il protagonista, a dirci cosa sente dentro a livello sentimentale, perché altrimenti sarebbe solo un ripetersi di frasi ed espressioni inadeguate e fastidiose come “matrimonio a pezzi” e via dicendo; quando gli animi si accendono è “I'm on fire” di Bruce Springsteen a riportare la calma; “E ti vengo a cercare” è l'unico modo per rispondere durante la Tribuna elettorale.
Moretti però non consola: il rigore decisivo viene sbagliato e il finale non è che “parodia di un finale consolatorio, quasi un finale stalinista da realismo socialista”(Nanni Moretti, intervista in Script, Dino Audino Editore). Dunque l'utopia comunista ha fatto il suo percorso (a palombella, come suggerisce il titolo), ma il piccolo Michele ride, quasi suggerendo una presa di posizione radicalmente relativista e lasciando ampio spazio per riflessioni ed analisi.
In conclusione possiamo affermare che Palombella rossa è un film certamente politico, ma che muove da profonde riflessioni intime del suo autore, non liquidabile come “un film sulla fine del partito comunista”. A dispetto del successo ricevuto soprattutto successivamente, è con quest'opera che Moretti firma il suo autentico capolavoro, firmando con sobrietà registica e una scrittura originale ed acutissima l'apice della sua palombella artistica.



Poi, per dirla tutta, non è che adesso si fan solo pseudo recensioni di film, qualcos'altro da scrivere lo troveremo. Forse.

lunedì 11 luglio 2011

Tutti quei film che abbiamo detto adesso ce li vediamo - Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto


L'altra sera sembrava si dormisse da Davide. Che ha detto "guardiamoci un film" e c'aveva tutta una collezione di dvd di cinema italiano e c'era questo film di Elio Petri lì e io ho detto "Guardiamo questo". Poi il sonno aveva preso il sopravvento(si veniva da una serata "dura e senza compromessi") e si era rimandato tutto al giorno dopo che era domenica scorsa.
Nonostante lo scetticismo di Infa, lo guardiamo dopo cena. Beh che dire? E' un bel film sul potere, sul "chi controlla i controllori?". Mi ricorda un po' un pezzo di Ascanio Celestini al Festival No Dal Molin di qualche anno fa. Ma qui si spara alto, è una questione di potere a livello di massimi sistemi. Potere che è anarchico per sua definizione; ad un certo punto spunta fuori pure il Marchese de Sade che a Maniglio si sono illuminati gli occhi. Dovete sapere che gli è piaciuto moltissimo Salò o le 120 giornate di Sodoma che in fin dei conti, tira di qua e tira di là è un film distante a livello visivo e ovviamente anche per trama, ma tematicamente vicinissimo.
Petri è decisamente più giornalista e meno visionario di Pasolini, è il film sta tutto lì nella sceneggiatura. Per carità, nemmeno a regia c'è da lamentarsi, piuttosto si segnala un certo interesse verso i primi piani stretti stretti. Strepitoso Volonté, ottime musiche(firmate Morricone). Nonostante i flashback, le parti oniriche e gli psicologismi è un film narrativo non lontanto dai canoni convenzionali, efficace e assolutamente apprezzabile. Petri non concede nulla alle emozioni, ma va dritto per la sua strada(scontando però qualche banalità) consegnando alla storia del cinema un personaggio indimenticabile ed un finale veramente notevole con tanto di enigmatico rimando a logge massoniche o simili.
Infine, visto che stiamo su un personal blog, mica il Vangelo insomma!, dico la mia: meglio, e non solo per una questione anagrafica, del pur ottimo Salò di Pasolini, decisamente troppo appesantito da una spettacolarità talvolta gratuita.
Eh si, ce lo saremmo dovuti vedere tutti insieme.

sabato 9 luglio 2011

Lettere al direttore

Penso non ve ne siate accorti visto che in pochi l'hanno fatto, ma il sottoscritto da qualche mese è direttore de Il Giornale. Un attacco hacker al nostro sito web e il lavoro certosino delle forze del male, ha fino ad ora impedito il cambio editoriale che volevamo imporre. Diciamo che una copia su cinque de Il Giornale è quella vera, diretta da me. Il restante 80% è un complotto della P4, credo. Ora, per chiarirci, vi spiego che abbiamo virato su un target nuovo: le casalinghe e i sedicenni delusi dalla vita. C'é una bellissima rubrica di Marcello Veneziani, "La sedia", in risposta a "L'amaca" di Michele Serra, solo più gay. Oltre a questa e altre innovative scommesse che v'invito a scoprire in edicola(a Pantelleria c'è solo la nostra versione, quindi se siete di là non c'è problema), ci sono le lettere al direttore. Volevo pubblicarne una qui, dato che il nostro portale web è attualmente in mano agli hacker governativi.



Caro direttore Sallusti,
come va? Le scrivo, cosa affatto facile per me la posso assicurare, perché vivo notti tormentate e giornate difficili. Un tarlo si è lentamente ficcato nella mia testa, giorno dopo giorno, ed ha iniziato a picchiettarmi prima, martellarmi poi. Per la testa da troppo tempo mi gironzola quest'idea: vede, noi esseri umani non comunichiamo affatto fra di noi, se non cose concrete: ad esempio se io dico a mia moglie, mentre siamo a tavola, "passami l'acqua", ecco che lei mi passa l'acqua. Bene, tutto a posto. Immaginiamo ora che mia moglie abbia letto su qualche rivista salutista che bere acqua durante il pranzo è sconsigliabile: io le chiedo di passarmi la bottiglia per abbeverarmi e lei dirà che no, non può, è sconsigliato, non fa bene, è meglio di no, lascia perdere etc etc Poniamo ora che mia moglie sia molto cocciuta(ed è vero, essendo lei dell'Ariete!): nonostante le mie lamentele e le mie sempre più insistenti richieste, lei si ostinerà a non passarmi l'acqua.
Per carità nessun problema, mi alzo un attimo e raggiungo la bottiglia prima troppo lontana. Mi verso l'acqua nel bicchiere e mi disseto.
Infatti era un esempio: c'è o non c'è un problema di comunicazione? Ma non dico in famiglia, cioè era un esempio. Dico nel senso che non vi era modo alcuno per comunicare la mia sete. E da qui il mio problema: non sono forse gli essere umani tutti dentro ad una scatola, ognuna diversa, ognuna in fondo persa per i fatti suoi? Non c'è forse un problema di traduzione del pensiero, non è forse impossibile far si che le mie sensazioni, emozioni e pensieri giungano in maniera accettabile all'interlocutore? Del resto io non mi aspetto affatto che Lei capisca l'emozione con cui scrivo queste parole.
Oggi io ho paura. Paura di non essere visto dagli altri per come sono davvero e di non vedere gli altri per come sono davvero anche loro. Insomma, di non essere riuscito davvero nemmeno un istante ad apparire per com'ero e come sono e di non riuscire mai a mostrare come sarò. Le mie parole, per quanto espresse in una grammatica corretta o meno, in una lingua conosciuta o meno, ma anche i gesti, le espressioni, il tono della voce, i fremiti, tutta questa vasta gamma di comunicazione verbale o del corpo o di che so io, non passa forse per un filtro troppo stretto, inadeguato? Un muro invisibile ci separa l'uno dall'altro, ci tiene slegati per l'eternità e ci dona l'illusione della comprensione. Non è così forse? Siamo soli.
Ecco, vorrei trovare un senso a questa cosa, anche se questa cosa un senso non ce l'ha.
Caro direttore, disilluso la saluto augurandoLe buon lavoro e buona fortuna!

Vasco R.


Caro signor Vasco, volevo dirle che non sono Sallusti.
Ciò detto, mi ha colpito molto la sua lettera: il tema che Lei affronta è stato oggetto delle poesie più belle, dei quadri più immaginifici, dei film più commoventi etc etc Siamo davvero in grado di comunicare agli altri quello che veramente vogliamo dire? In certi casi si, lo dice lei stesso. Altre volte le parole(ma anche le immagini o, perché no, il contatto fisico) non sembrano bastare. Penso però che a volte, con le persone giuste, sia possibile capirsi al volo. Si creano delle situazioni di affinità straordinarie, situazioni che io chiamerei "momenti roxy bar". E' per quei momenti che vale la pena vivere, momenti in cui respirare piano, per non far rumore. Qualcosa certamente si perde nella traduzione, ma una volta compreso ciò basta stare in campana: osservare con più attenzione gli altri e curarsi di non essere stati fraintesi.
Buon lavoro e buona fortuna anche a Lei.

domenica 26 giugno 2011

Di passaggio

Non vado al massimo ultimamente. Stremato sono giunto al termine de La linea d'ombra, ch'erano poche pagine. Non mi viene molto da scrivere e, come se non bastasse, quello che scrivo non è buono. Quello che filmo e monto ancora peggio.
L'ultima delle idee è una nuova zine, autarchica fino al midollo. Spero di fare un lavoro pregevole, duraturo, al contrario di quanto ho prodotto fino ad ora. Ciò appare come impresa improba, soprattutto dopo aver constato che quanto buttato giù fino ad ora sul mio piccolo computer non va assolutamente nella direzione giusta.
Sperando in tempi migliori e in serate allegre passate insieme, vi lascio un frammento di qualcosa che non è stato, non è e non sarà mai. Per fortuna.


Mangiatore d'hashish

Ancora mi perdevo coi pensieri per le strade del centro storico. Passato un piccolo canale, la mia attenzione venne attratta da un piccolo negozio di robi vecchi: l'entrata era posta qualche gradino più in basso rispetto alla strada ed era rappresentata da una porta rossa, la cui vernice mostrava tutti i segni del tempo, lasciando ampi spazi vuoti dove i tarli avevano trovato di che viverci. La finestrina romboidale che dava sull'interno era sporca e costringeva l'immaginazione a lavorare. Tremendamente incuriosito entrai in quel piccolo negozio.
C'era odore di legno vecchio, mobili antichi ormai inutilizzabili portavano appiccicato addosso prezzi cari ed inarrivabili per le mie tasche. Vecchi vestiti umidi ed impolveriti trovavano il loro spazio poco distante, una giovane donna alla cassa contrattava il prezzo di quelli che aveva scelto. Dei capelli castani e ricci adornavano una faccia buffa e due occhi verde acqua; pensai che l'aspetto comico della ragazza nascondesse una bellezza più sottile, avevo la sensazione di sentirla emergere dalla voce con la quale contrattava il prezzo della merce. Sapeva farci eccome, seppure il gestore, che le foto appese intorno testimoniavano essere un ex maratoneta kenyota professionista, dimostrasse di non essere certo l'ultimo arrivato. Indeciso sul da farsi mi sorpresi a guardarle il sedere. Decisi di voltare lo sguardo, sempre per quella storia del pudore, e notai una tenda e un'insegna: vietato ai minori di diciottanni. Senza troppo indugio varcai anche quella soglia.
Dimenticate l'odore di legno ammuffito, di polvere e di kenyota invecchiato: l'aroma dell'hashish era forte e piacevole e non si sa quale magico incantesimo non gli avesse permesso di attraversare quella tenda.
Alcuni vecchi giocavano a carte e degli arazzi antichi e bellissimi adornavano la stanza. Erano sfondo delle più bizzarre e confuse bestemmie che si potevano udire sulla faccia della terra: gli anziani giocatori di carte provenivano dalle zone più disparate del globo e l'italiano era declinato in tutti i possibili accenti. In mezzo a questa bisca si stagliava la figura solitaria di un giovane uomo dai tratti somatici decisamente più famigliari. Era però vestito in modo assai stravagante: sembrava una specie di nobile indiano sperduto nel tempo; mi sedetti al suo fianco mentre mordeva grossi cioccolatini. Non ci volle molto a capire che non si trattava di dolciumi qualunque, bensì di hashish glassato ed addolcito da zuccheri e oli esotici, dalle dimensioni del piatto dal quale prendeva queste presunte prelibatezze s'intuiva averne mangiati a palate. Senza che dissi niente, tanto ero intento ad osservare stupito tutti i particolari di quella stanza, mi rivolse la parola “Mangiare l'hashish è un arte. Una questione di stile, una questione di classe. E' una presa di coscienza seria. Ho appreso molte cose durante la mia vita, la via della seta mi ha insegnato le regole e le ragioni del mondo. Ora io qui, di fronte al mio sapere, non posso certo abbassarmi a fumare l'olio di motore che tu e i tuo amici ogni tanto vi concedete. Che ci fai qui?” Sbalordito dalle parole che erano uscite dalla sua bocca (e dal come erano uscite! Fluenti e perfette, musicali ben al di là della loro metrica) non seppi che rispondere. “Non mi sorprende il tuo silenzio”- s'interruppe un momento a causa del singhiozzo -“gli uomini si dividono in sapienti ed ignoranti, in attivi e pigri e di tutte le specie tu rappresenti la peggiore.” Si blocco, ché un rutto, soffocato con sforzo immane, gli aveva invaso la gola, poi riprese sofferente “Ignorante, pigro e mal vestito. Non hai vergogna? Assaggia pure uno di questi doni di Dio e prova ad assaporare almeno un istante degno d'essere vissuto.”
Le sue parole mi colpivano, m'inchiodavano alla sedia ed ipnotizzavano. Un sussulto di pianto sembrava farsi strada sotto le mie guance fin dietro gli occhi, ma qualcosa non mi convinceva nel suo tono. Iniziarono poi a fluire in me pensieri figli di orgoglio e dignità offesa, accompagnati da una sensazione di riscoperta: sembrava di assistere ad una resurezzione. Mi alzai in piedi, sul mio viso si doveva scorgere sia la rabbia che la paura, sia l'insicurezza che la certezza di essere migliore di questo personaggio da circo. Gli sibilai “Sei solo un sottone qualunque” con la speranza di ferirlo profondamente. Il tono incerto con cui lo dissi dovette risultare davvero ridicolo, tant'é che rise, rise fino a sentir mancare il respiro e a produrre rumori sempre meno accomodanti e forieri di cattivi presagi. Più cercava di smettere e di ricomporsi e più rideva a crepapelle. I vecchi intorno sospesero le loro partite e si avvicinarono intorno a quel bizzarro ed arrogante principe indiano. Provarono a farlo riprendere con due colpi sulla schiena, ma egli proseguiva nel ridere, non riusciva a smettere. In volto si fece sempre più rosso, iniziarono a comporsi negli angoli degli occhi delle lacrime che poi mano a mano scesero, mentre la risata si faceva d'improvviso silenziosa e la testa sembrava potesse scoppiare da un momento all'altro. Nella stanza si diffuse il panico, un vecchio afghano urlava qualcosa di incomprensibile mentre l'eschimese si coprì gli occhi per non vedere. Fu quando, preoccupato dal fracasso, entrò il kenyota che la testa di quel giovane esplose schizzando su tutti gli astanti e gli arazzi stesi sui muri intorno il suo sangue e le sue membra. Ne sputai addirittura un pezzo dalla punta della lingua, come fosse un capello o un pelo di figa. Questa volta era un pezzo cervello. In quell'incidente morirono altre 4 persone, col muso perforato fino ai punti vitali da diverse ossa fra le quali denti, frammenti di setto nasale e schegge della scatola cranica. Un massacro.


In vedetta

giovedì 23 giugno 2011

Cruccioklan

Raggiante hai sorseggiato una birra venendo a dire che il mondo è perfetto e se vuoi le cose si aggiustano.
Piuttosto dimmi di accettare quel che capita, ti avrei preso più in simpatia.


"Ehi"
"Ehi".
Si siede a fianco a me. Lo aspetto. Poi gli faccio "Ohi, senti, posso dirti una cosa importante?"
"Si, si..però aspetta un attimo che ti dico la mia nuova idea" e lo fa senza lasciarmi il tempo di controbattere "praticamente facciamo un reality show in cui prendiamo i Truce Klan no...e ce li mettiamo in una fattoria con 5-6 fighe. In sta fattoria poi si crea tutto un rapporto fra le fighe e i Truce Klan che intanto devono allevare galline, maiali, pescigatti e via dicendo. Poi un po' alla volta vengono eliminate le fighe, nel senso: contemporaneamente alla vita in fattoria le fighe si sfidano a colpi di hip hop e i truce klan fanno da insegnanti a ste qua e poi anche da giudici e scelgono chi eliminare. Poi bisogna vedere se eliminano quelle più bruttine che magari non la danno o quelle più scarse no? Che te ne pare? Figa come idea dai..."
Provo a rispondergli "Mah, si. Potrebbe anche andare." Mi fermo un attimo a pensare e chiedo "Ma chi cazzo sono i Truce Klan?"

lunedì 13 giugno 2011

Comunicazione di servizio #1

Dovevo fare un post sul post referendum, ma è andato. Pensavo di fare un post-reportage di questa cinque giorni fittissima tra Bruxelles ed Amsterdam e che se facciamo un reportage di sette giorni c'aggiungiamo Gorizia.
Bene, voi attendete, io vado a dormire. E a dare un esame del cazzo.

***Ci si vede tutti a Festambiente dal 22 al 26 giugno, Parco Retrone(Vicenza)***
Chi non viene sa di formaggio belga!

domenica 5 giugno 2011

Meri in giùn

Tutta la comunità indì del web è presa d'assalto(eh?), scossa dal tumulto(eh?) provocato da Il sorprendente album d'esordio dei Cani , che è il titolo del primo album de i Cani. Che, non so se l'avevamo già detto in questo blog, in realtà è uno solo che smanetta con computer e basso e basta credo.
I temerari scopritori di talenti indì lo avevano già consacrato nell'estate scorsa allorquando era uscita solo I pariolini di diciotanni, che di per sé è veramente una bombazza.
Comunque dicevamo: è uscito sto album, tutti i fan dicono è bellissimo, tutti gli hater dicono fa cagarissimo, la gente che non ne sa un cazzo ha preso a condividerlo su facebook come nulla fosse e altri hater fioriscono.
Volendo assolutamente porre fine a questa caciara dico: è un album carino, che aggiunge 5 canzonette all'esigua discografia di questo ex capo scout di un mio concitaddino acquisito.
Ma proprio perché cerchiamo di essere proprio più fighi di tutti, nel senso essere avanti, ma con garbo, parliamo di un altro album, perché siamo più belli ché ascoltiamo cose che la gente manco sa esistano e perché non cadiamo nel tunnel di chi critica a cazzo.
Parliamo di un altro album, o meglio di un ep: Ferirsi - Mary in june.
Si può ascoltare qui http://maryinjune.bandcamp.com/ e anche scaricare gratis.
A me sembra prorpio bellone, che ti smuove qualcosa dentro e anche qualcosa fuori. Ascoltatelo.

venerdì 3 giugno 2011

Tutti quei film che abbiamo detto adesso ce li vediamo - Tirate sul pianista

Ho visto questo film in due tempi, uno l'altro ieri notte e uno ieri notte. Il protagonista è Charles Aznavour, che più che altro è un cantante, ma non se la cava male. Qui interpreta un pianista bravissimo e con una sfiga micidiale. Poi c'è una donna e c'è una pistola, insomma la nouvelle vague. Ecco, se in Godard, almeno quello che ho visto di Godard(sempre troppo poco), la contraddizione è messa in scena ovvero i personaggi dicono una cosa e ne fanno un'altra, in Truffaut la contraddizione è tutta dentro i personaggi e soprattutto dentro questo piccolo pianista(che poi secondo me c'assomiglia a Truffaut, quindi credo ci sia proprio quel sano autobiografismo).
Con la trama di questo film hollywood c'ha fatto tutti i suoi film d'azione o quasi(nel senso quasi tutti i film d'azione e quasi sempre film d'azione), Truffaut ne fa un trattato sul rapporto uomo-donna. Dialoghi belloni.
Eh si, ce lo saremmo dovuti vedere insieme.


venerdì 27 maggio 2011

Le migliori pagine di facebook non ancora inventate

Rubrica demenziale e senza futuro



Cosa avrebbe fatto Antonello Piroso nell'età del muto?

Tutto su tua madre*

Tutto su Lilli Gruber

Immaginare che Lilli Gruber faccia dei gran pompini

Sbadigliare a più riprese guardando un film di Godard e commentare al termine della visione con "E' un Capolavoro assoluto"


*esiste di già davvero già

lunedì 16 maggio 2011

Il cinefilo




Si rivolse a lei e disse solennemente "Questo decadrage è meraviglioso". Era un tempio questo, in cui parlare delle cose che fiorivano nella mente in quello stesso istante che si faceva così meraviglia.
Per le strade della città fioccava il malumore e si dispensavano volantini di sette mistico-religiose; la gente pensava ad un secondo fine, tant'è che tutti capirono il gioco del calcolo e tutti pensavano a cosa l'interlocutore stesse calcolando.
Le badanti guardavano la televisione insieme alle vecchie decrepite che accudivano, sobbalzavano in sincrono alle notizie inferte dai telegiornali nazionali e al servizio sui giovani che si drogano del telegiornale regionale veneto.
"Io non capisco la misura, o meglio, questa situazione, vedi: cerco, ma in realtà non cerco; immagino, ma in realtà non immagino; penso, ma in realtà non penso. Dici che è il cambio di stagione?" Così diceva uno degli amici ad un altro amico (erano fra i pochi rimasti tali all'epoca) e l'altro provò a rispondergli senza rispondere, infatti parlò dei fatti suoi "Quello che mi dici capita a puntino: giusto l'altro giorno ero alle prese con un dialogo per il mio nuovo romanzo, ebbene, mentre ero lì che riflettevo, m'immedesimavo man mano in uno dei personaggi, ricercavo un certo equilibrio stilistico e bevevo il caffé ormai raffredato. Ecco insomma, si, mi sentivo come ingabbiato nel mio studio: cercavo di pensare al romanzo, ma pensavo solo a quanto male mi sentivo dentro l'ufficio....ecco, da allora porto con me quanto ho battuto...guarda, questo è il dialogo che ho scritto." E gli porse un foglio piegato. Il suo compare lo aprì e vi diede una letta senza leggere. Però. Disse "Però..." "Eh, non male vero?"
Tornando a noi, che pensavamo di trovare nella semiotica cinematografica il modo adeguato per sviluppare la nostra relazione, dovemmo cedere alle lusinghe della carne e gettarci a capofitto sul tuo letto e scioglierci al caldo estivo mentre le zanzare assistevano all'amplesso. Fu un momento topico: stavi per venire, una zanzara si posò sulla tua guancia, la mia mano si mosse prima del mio pensiero. Sbam! Ammazzai la zanzara(invero troppo tardi dato che da essa fuoriuscì una tua goccia di sangue) e ti feci del male. "Sei scemo!?"
Poi venne l'inverno e le cose si fecero più ardue per tutti, anche per i calcolatori poiché non ne volevano sapere di pagare il riscaldamento. Se ne stavano tutti al freddo con una coperta in più sul letto. Un mio conoscente diede una festicciola a casa sua e invitò i primi che trovava, fra cui il sottoscritto, e anche quattro puttane, non di professione s'intende. In frigo aveva solo del formaggio spalamabile Philadelphia con allegata ricetta. Cucinammo a fuoco lento la cena, mentre la fiamma era più viva al di sotto del pezzo di fumo e intorno alle quattro puttane. Gli ingredienti per la festa perfetta erano disposti casulamente nel soggiorno e tutto andò secondo i piani. Eccetto una cosa, che il mio conoscente non aveva previsto, manifestatasi, in una luce immensa e indimenticabile per i presenti, nove mesi più tardi su di un taxi. La cosa che preoccupava di più il mio conoscente però era stata la scarsa qualità di quell'orgasmo e di quell'erezione, che solo qualche mese più tardi gli procurò una gioia che non sapeva esistesse. Eppure al fin di questa favola maldigesta manca un appunto: ero appostato a pochi metri, nel parchetto. Fumavo una sigaretta e pensavo all'inizio di un film western. Arrivò un'auto, scesero quattro ragazzi, si diressero verso il Kebab di Sufyan e si fermarono a metà strada: giunse sul posto un'altra auto, scese un ragazzo, poi un altro, poi una ragazza, poi un'altra. Al rallentì: mezza figura, lei chiude la portiera e volta la testa nella mia direzione, controcampo su di me, primo piano di lei, controcampo su di me, primissimo piano di lei con degli occhi bellissimi. Poi raggiunge gli altri. In otto si dirigono all'interno del locale, ordinano, consumano e se ne vanno.